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Gingerino. Tra libertà e tutela

Quello della tassazione delle bevande gassate e zuccherate è stato uno dei temi più caldi dell’estate appena trascorsa.
 
Il ministro della Salute, Balduzzi, aveva proposto un aggravio di imposta per scoraggiarne il consumo e promuovere uno stile di vita più sano. Le reazioni sono state durissime, tra chi lo accusava di attentare alla libertà individuale (come Porro) o di voler realizzare lo Stato etico (Ostellino) e chi rivendicava il diritto a preferire la felicità alla salute (Ferrara). La proposta non è passata. Nel blog avevo preso posizione a favore della misura; viste le critiche, è opportuno tornare a parlarne più diffusamente.
 
Qui non interessa la vera ragione della proposta Balduzzi. È probabile che fosse dettata da esigenze di bilancio, ma è indubbio che è stata posta una questione che sarebbe un grave errore considerare solo balneare. La letteratura scientifica ha dimostrato i potenziali effetti benefici di una tassazione dei cibi gassati e zuccherati (Il Messaggero, 28.8.2012); l’opposizione alla misura ha carattere ideologico: seppur con argomentazioni diverse, tutte le critiche muovono da un assunto di principio: la promozione di stili di vita corretti non rientra nei compiti dello Stato perché attiene alla libertà individuale. Va, anzitutto, sgombrato il campo da un equivoco.
 
La proposta non vietava le bevande gassate e zuccherate, ma aumentando la tassazione ne disincentivava il consumo. Il “diritto alla panza” (copyright di Porro) non risulta conculcato ma è solo divenuto più oneroso (il che, a sua volta, apre altri problemi, non potendo dipendere l’efficacia della misura dal reddito del consumatore). L’amministrazione Obama si ispira, dichiaratamente, alla dottrina del Paternalismo libertario, che rivendica il diritto di definire l’architettura della scelta quando migliori la qualità della decisione. Ne è espressione la legislazione che prevede la donazione degli organi salvo diversa, espressa volontà del testatore.
 
Nel nostro ordinamento, ci sono numerosissime disposizioni che orientano lo stile di vita o tutelano la salute, individuale e collettiva. Per fare sport è richiesto il certificato medico; per guidare si devono mettere le cinture o il casco. La proposta del ministro non era rivoluzionaria (anche se ci sarebbero ben altre priorità).
 
A sua difesa sono stati invocati i costi sociali che una esistenza insana può far ricadere sulla collettività. L’approccio utilitaristico non mi convince, anche perché andrebbe dimostrato che a fronte dei maggiori oneri per il sistema sanitario la minore aspettativa di vita non si traduce in un vantaggio per quello previdenziale (sic!).
 
Ciò a cui non credo è il mito dell’individuo che, privo di legami sociali, rivendica il diritto di poter condurre la propria vita come vuole e crede. Nessuno di noi è individuo. Siamo figli e genitori, abbiamo legami affettivi e di amicizia, viviamo in un tessuto di rapporti sociali rispetto ai quali siamo, chi per un modo chi per un altro, chiamati ad essere responsabili. Un genitore può vivere la vita come vuole, ma è demagogico ritenere che le conseguenze dei suoi errori non si ripercuotano sui figli che da lui dipendono (e che ha generato). Così tra coniugi e tra coloro, più o meno adulti, che amano e sono amati. Invocare la libertà individuale per scoraggiare l’adozione di misure che promuovono stili di vita sani e responsabili significa ignorare la socialità dell’essere umano.
 
La cultura e la legge possono ancora farlo, ma la vita si fa beffe dei sofismi e, come è stato osservato, ognuno è chiamato prima o poi a rispondere del libro che è la nostra autobiografia. Così non tutti siamo dotati delle stesse capacità e conoscenze. Si è eguali avanti alla legge, ma non alla natura. L’assunto per il quale ognuno di noi è (sempre) in grado di prendere le decisioni migliori è una finzione logica, economica e, spesso, giuridica utilissima nella costruzione dell’architettura sociale, ma che si scontra con le evidenze dell’esperienza quotidiana.
 
Ecco perché è indispensabile preservare la libertà, ma tutelarla serve a poco se poi non si mettono le persone nelle condizioni di esercitarla al meglio.
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