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La lettera del prof. Savona agli amici tedeschi e italiani

Cari amici italiani,
temo non vi rendiate conto della gravità della situazione che spinge giorno dopo giorno l’Italia sul sentiero del sottosviluppo economico e della crisi sociale. Al contesto mondiale di crescente concorrenza, si aggiungono gli effetti della natura monetaria non ottimale dell’euro e di una ancor più rigida politica fiscale impostaci dall’UE e da noi accettata sotto l’assillo dell’emergenza, ma ora giustificata come una soluzione, se non ideale, quanto meno plausibile ai mali dell’Europa. Tutto ciò porta alla deindustrializzazione dell’Italia e alla crescita della disoccupazione. Il settore alimentare e quello dei servizi turistici non sono in condizioni di compensare la perdita di spinta dei due motori del nostro sviluppo, le esportazioni di prodotti industriali e le costruzioni.
 
La decisione di Draghi di difendere l’euro, ma a condizione che si rispetti il fiscal compact ed altri impegni europei di volta in volta negoziati, ci offre tempo per agire, ma non risolve i problemi di fondo dell’assetto istituzionale europeo, che vanno risolti con urgenza. Nella mia lettera agli amici tedeschi, che vi prego di leggere, domando loro se sono coscienti che stanno attuando la sostanza del Piano economico avanzato nel 1936 da Walter Funk, il ministro dell’economia nazista, il quale prevedeva che la Germania divenisse il “paese d’ordine” in Europa, che il suo sviluppo fosse prevalentemente industriale, con qualche concessione per l’alleato storico, la Francia, e che gli altri paesi europei si concentrassero nella produzione agricola e svolgessero funzioni di serbatoio di lavoro; infine che le monete europee confluissero nell’area del marco, per seguirne le regole.
 
Volete che ciò accada?
 
Poiché le capacità imprenditoriali del Paese possono trovare sbocco negli investimenti esteri, oltre che in maggiori esportazioni, le conseguenze dell’attuale situazione delle relazioni europee non sono quindi di natura economica, ma prevalentemente politico-sociali. La soluzione dei problemi di adattamento dell’economia alle nuove condizioni geopolitiche interne all’Europa volute dalla Germania, unitamente a quelle che il mercato globale ci impone, va infatti trasferendo la patata calda della disoccupazione e del ridimen-sionamento della rete di protezione sociale nelle mani della politica, che non è in condizione di raffreddarla, non disponendo di propri strumenti da attivare a tal fine. Non sarà certo la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, pur doverosa, che invertirà il processo di sottosviluppo in atto, che resta eterodiretto e dagli sbocchi sociali imprevedibili .
 
La tassa patrimoniale vagheggiata dalla sinistra non è una soluzione e causerebbe solo un’accelerazione del processo di decadenza dell’economia e di fuga dei capitali, sulla cui entità il Fondo Monetario Internazionale ci ha già reso edotti. Preoccupa la scarsa attenzione ai problemi della disoccupazione. E’ pur vero che siamo in guerra, come anche ci ha ricordato Mario Monti – una guerra tutta economica e “di sistema” – e i generali ben sanno che, per vincerla, devono accettare di lasciare sul terreno una percentuale di soldati; in tempo di pace questi assumono la forma di disoccupati. Ferisce l’insensibilità verso queste perdite, che non toccano solo i lavoratori, ma anche le imprese; la scomparsa di queste imprese, tuttavia, equivale a una purificazione del mercato dagli imprenditori incapaci: è quella che i neoclassici chiamano “distruzione creatrice” che non vale per la disoccupazione della forza lavoro.
 
L’economia italiana saprà aggiustarsi razionalizzandosi all’interno e investendo all’estero. La società non ha questa possibilità di sbocco, al di fuori dell’emigrazione. Ma il resto del mondo è pronto ad accettarci, ammesso che noi si voglia percorrere questa strada? Perciò la mancata soluzione del problema della disoccupazione non trova i suoi limiti negli sviluppi dell’economia, ma nella capacità di sopportazione della società alla perdita di benessere. La mia valutazione è che la resilienza sociale sia da noi elevata ma, da un lato, essa rappresenta un pericolo, perché porta ad adattarsi al decadimento senza reagire, e, dall’altro, causa incertezze sul futuro, quelle che lo spread BTP-BUND registra, perché l’esplosione della piazza è sempre imprevedibile e gli sbocchi traumatici. Il vero problema, come io lo vedo, non è solo di domanda e di offerta, ma prevalentemente dell’assetto istitu-zionale entro il quale operiamo.
 
La soluzione dei nostri mali passa da una ridefinizione dell’architettura monetaria internazionale, spostando il riferimento degli scambi su una moneta di conto internazionale, come sarebbero i diritti speciali di prelievo riformati, e aggiungendo alle clausole del WTO l’obbligo dello stesso rapporto di cambio. A livello europeo, rinegoziando i patti per trasformare l’organismo biogiuridico che ha preso a funzionare dopo Maastricht in un creatore di opportunità e non solo di vincoli che portano alla deflazione. Il cambio fisso all’interno dei 17 paesi dell’euroarea, con la possibilità degli altri 9 paesi membri dell’UE e del resto del mondo di poter aggiustare il rapporto e la certezza che il dollaro resterà comparabilmente debole, tiene l’euro sottovalutato per alcuni e sopravalutato per altri; insieme alla confusione (forse conseguente) del nostro clima politico, il rapporto di cambio fuori equilibrio causa un lento trasferimento dello sviluppo industriale verso la Germania e le poche altre aree industriali forti.
 
Le politiche europee di compensazione che sarebbero indispensabili per fronteggiare la non ottimalità monetaria dell’euroarea si vanno trasformando in politiche nazionali di vincoli nell’uso degli strumenti fiscali e in limitazioni palesi e occulte nel movimento degli input e degli output. Tutto ciò accelera il processo di trasferimento dello sviluppo dalle aree in difficoltà a quelle che non lo sono. Il caso greco dovrebbe pur insegnare qualcosa. Ritenere che il rigoroso rispetto delle attuali regole europee ci porti fuori da questa situazione è pura illusione, forse una vera follia.
 
L’atteso “rimpiazzo” della domanda privata a seguito della riduzione della domanda pubblica e gli effetti delle riforme (principalmente liberalizzazioni e modifiche del mercato del lavoro) non sono certi, né quantificabili, e, anche a volerli considerare possibili, si manifestano con molta lentezza, mentre gli effetti della crisi sono rapidi e causano irrimediabili perdite di capacità produttiva e di aree di mercato. Quando i vagoni si staccano da una locomotiva in corsa difficilmente possono essere riagganciati.
 
Le proposte dei Partiti tradizionali e quelle delle nuove formazioni politiche sono sganciate dalle reali condizioni da affrontare, che consistono nella ricerca di una nuova collocazione geopolitica in ambito europeo, se si apre lo spazio per una più seria riforma dell’assetto istituzionale, o in ambito internazionale, se lo spazio europeo, come sembra, resta irrimediabilmente impermeabile a diverse soluzioni. I mercati ci chiedono di garantire la continuazione della politica avviata dal Governo Monti, perché temono la discontinuità nella gestione del risanamento che deciderebbe la sinistra al potere, ma la scelta è la decadenza tra i possibili effetti della discontinuità e quelli della politica economica in atto.
 
Si può essere d’accordo nella necessità di impedire la discontinuità che porta alla fuga dei capitali, a mancati investimenti e al trasferimento della tassazione dal reddito ai patrimoni, che funzionerebbe sempre allo stesso modo, ossia inciderebbe sui lavoratori e sui risparmiatori. In assenza di un disegno di sviluppo il mercato teme anche una caduta del prodotto nazionale che acuirebbe la crescita del rapporto debito pubblico/PIL. La continuità necessaria e ricercata è della serietà mostrata dalle persone che fanno parte del Governo dei tecnici, a cominciare dal Presidente Monti, ma è doveroso chiedere che essa passi dal voto agli elettori. La continuità non può essere invece nella politica europea e in quella interna. Nella prima, per evitare l’“effetto Funk”, e nella seconda, per evitare di ritenere che con la lotta all’evasione che incrementa la pressione fiscale e la lotta alla corruzione fatta con le forze dell’ordine (operatori sul campo e giudici) si riesca a uscire dalla crisi.
 
Siamo stati informati che la lotta all’evasione ha consentito di recuperare circa 13 mld di euro; se l’aumento del gettito fiscale ha fatto cadere di un punto percentuale il PIL, non mi sembra che sia stato fatto un bel guadagno! La crisi è nella politica economica conseguente alla natura degli accordi internazionali ed europei e alla condivisione del loro indirizzo deflattivo e redistributivo da parte nostra.
Poiché manca una forza politica che inglobi nel suo programma obiettivi di serietà e di sviluppo, finiranno con il prevalere le forze che si appellano all’antipolitica, che è politica anch’essa, ma di pessima qualità. Questa è la discontinuità da evitare senza cadere nella continuità di una politica economica che non risponde ai bisogni del Paese.
 
Come spiego nella mia analisi della situazione qui allegata, che vi prego di leggere, occorre lavorare su due fronti: cambiare attitudine accondiscendente nei confronti della politica europea errata e prepararsi a un’operazione straordinaria congiunta sul debito pubblico e sul patrimonio dello Stato, secondo le linee da me indicate con i colleghi Michele Fratianni e Antonio Rinaldi. Un consolidamento del debito dello Stato a 7 anni, pagando una cedola pari all’inflazione e al 20% dello sviluppo che si otterrà, più uno warrant sul patrimonio pubblico. Questa operazione libererebbe nell’immediato risorse per circa 40 miliardi derivanti dalla riduzione degli oneri finanziari attualmente pagati dallo Stato, offrendo sia spazio per dare sia fiato alla domanda, secondo me detassando e non spendendo di più, sia tempo alle politiche dell’offerta per produrre i loro effetti. Non illudiamoci, la ripresa non verrà spontaneamente, caratteristica questa che purtroppo ha solo la disoccupazione!
 
Paolo Savona
Economista indipendente
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