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Sul caso Gabriele meglio non processare nessuno

L’inchiesta del Vaticano sul Vatileaks sta ormai procedendo da sabato scorso in una direzione di marcia che possiamo definire “ordinaria”. Presto sarà pure conclusiva.
 
Abituati come siamo, d’altronde, alle vicende giudiziarie italiane, interminabili ed inestricabili, questo dibattito appare a dir poco anomalo, forse perfino noioso. Anomalo, appunto, per la sua linearità. Noioso per la sua banalità. L’imputato unico, Paolo Gabriele, non solo ha di fatto ammesso all’istante tutte le sue colpe, ma sta cercando in tutti i modi di scagionare moralmente anche i complici che per necessità di cose sono evidentemente coinvolti direttamente nella perniciosa vicenda tanto quanto lui: in particolare il giornalista Gianluigi Nuzzi, che ha pubblicato le rivelazioni, dando avvio al caso in questione e alla consequenziale denuncia.
 
Ogni processo, d’altronde, ha sempre qualcosa di rituale, simbolico, liturgico e di profondamente surreale. Come è noto la giustizia vera e quella processuale per definizione non devono coincidere. Combaciano, infatti, solo nei tribunali del popolo o in quelli di Stato. Quando viceversa regnano i diritti, i doveri delle parti sono rispettati a pennello. Tale positiva distanza si misura disgraziatamente anche in situazioni opposte, negative, ad esempio quando il canto è lugubre e la giustizia un po’ oscura, vedi Mani Pulite o le fallimentari inchieste sulle stragi terroristiche.
 
Tutto bene, dunque, in questo caso: tutto procede al meglio. Anche se fuori dal Vaticano, però, questo copione rasenta un paradosso di atipicità che è l’esatto contrario della banalizzazione del male di cui parlava Hanna Arendt. La pensatrice esprimeva, infatti, così il modo cinico e distaccato con cui venivano mandati a morte nei campi di concentramento gli ebrei con pratiche burocratiche legali e accurate. Qui, per contro, abbiamo la banalizzazione del bene, che è un’altra faccenda. Vale a dire la completa evanescenza di un’inchiesta e di un giudizio che già si sa che sarà necessariamente assolutorio e basato sulla grazia ad un reato più penoso che penale. D’altronde, è mai pensabile che il Dolce Cristo in Terra, ossia il Sommo Pontefice, possa legalmente e giudiziariamente condannare un uomo reo confesso di aver tradito, regalando ai giornalisti dei documenti più riservati che interessanti?
 
A rimanere celati, sotto questa coltre un po’ labile e dissimulatrice, sono i veri problemi che purtroppo ci sono in Vaticano come dappertutto. Problemi che chiamano in causa la complessa gestione dell’autorità spirituale e di quella temporale della Santa Sede, problemi che chiamerei volentieri etici, dato che non è bello definire in altro modo. Problemi insomma di comportamento e di senso dello Stato che concorrono a far appartenere la Chiesa totalmente al nostro tempo, un tempo in cui potere e corruzione imperano e vincono su tutto il resto.
 
Il mio giudizio sul caso Gabriele è, in definitiva, di grande amore per la Chiesa, sebbene concretamente possa apparire forse un tantino perentorio e netto. È meglio non processare nessuno, infatti, se non si processa niente. Ed è meglio non riformare niente piuttosto che far finta di riformare quanto appare in modo evidente ancora totalmente irriformabile.
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