Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La Cyber War di Obama spiegata da Luttwak

Non c’era bisogno di Internet per parlare di cyber-war. Da quando ci sono i telefoni, a dire il vero, ci sono forme di guerra basate sul controllo delle comunicazioni. Un solo, banale, esempio: nel 1914 i capomafia di New York diedero ordine ai loro uomini di non usare i telefoni per comunicare, perché intercettati. Le guerre di comunicazioni passano poi per il controllo dei codici cifrati. Arriviamo così al 2012, all’ordine presidenziale numero 20 firmato da Barack Obama poco prima della sua rielezione. È questo un tipico caso di formalizzazione ex-post di cose che si sono sviluppate organicamente nel corso degli ultimi anni. Fondamentalmente, è anche una scelta di tipo finanziario, perché consente di allocare risorse a bilancio e mettere ordine contabile nel sistema militare cibernetico.

Alla base di questo sviluppo c’è l’idea di molti, recepita e ufficializzata dal presidente, che questo è un tipo di guerra molto utile e molto efficace. Ma che se i militari non vengono incoraggiati e spinti a farla, essa resterà lettera morta, secondaria comunque rispetto alla guerra classica. L’istinto per le armi tradizionali – portaerei, carri armati, caccia – è parte della mentalità militare, per questo ci vuole un intervento presidenziale e del vertice civile. In effetti c’è un elemento di squilibrio nel sistema di difesa americano: il nuovo è spesso efficace, ma le risorse vengono controllate dal vecchio. Si pensi al numero esorbitante di alti ufficiali del Pentagono provenienti dal caccia, dalla portaerei o dal carro armato, mentre pochissimi arrivano dai laboratori informatici dove si mettono a punto le armi cibernetiche. E questo è un settore in cui il ventenne certamente batte il trentenne, figuriamoci gli “anziani” che controllano la struttura del Pentagono! Allora bisognerebbe imparare ancora una volta dallo spirito pionieristico israeliano, visto che lo Stato ebraico da molto tempo ormai ha cominciato a ragionare – e non solo a ragionare – sull’utilità dell’arma cibernetica, dedicandogli risorse e sfruttando appieno il sistema del reclutamento dei giovani, che come detto sono il bacino di riferimento per queste capacità. Israele ha dunque le strutture dedicate, e da più tempo, per cui paradossalmente la burocrazia americana, che non ama lavorare in joint venture, è costretta a cooperare su questo terreno con Tel Aviv.

Anche la Cina ha imparato da Israele, mettendo in piedi un reggimento elettronico che opera dal campo di battaglia con i computer e prevedendo l’addestramento alla cyber-war a livello di Accademia militare. Ma la differenza di fondo è data dal clima culturale, perché in Cina la carriera militare non è prestigiosa, non rappresenta uno sbocco per gli intelligenti e gli ambiziosi, mentre in Israele tutti devono comunque fare il servizio militare, inclusi i matematici che sono armati del computer invece che del moschetto. È soprattutto grazie alla joint venture con Israele che oggi gli Stati Uniti posseggono una discreta capacità offensiva. D’altra parte gli Stati Uniti sono stati i primi a integrare la capacità cyber nelle operazioni militari classiche. Si tratta di un dosaggio delicato, perché l’integrazione di una nuova arma comporta uno sforzo di mediazione, cambiando le capacità delle altre armi. Non si tratta, insomma, di una semplice aggiunta. È una cosa che va meditata a partire dalla testa, dal comando. In un certo senso, questo sforzo d’integrazione è necessario e vitale, perché gli Stati Uniti hanno insieme gli oneri e gli onori della leadership nella guerra cibernetica. La loro vulnerabilità e dipendenza dalle telecomunicazioni è notevole, tanto che l’appello di Leon Panetta a prepararsi a un “11 settembre cibernetico” non suona peregrino.

Panetta non ha in mente nessuno scenario specifico, ma sottolinea la possibilità teorica di un attacco con i “cavalli di Troia” elettronici, disseminati pazientemente per anni nell’infrastruttura, inseriti in forma inattiva, ma poi capaci di attivarsi in un determinato momento, impedendo la reazione, determinando catastrofi, paralizzando un Paese e causando danni umani indiretti: per esempio, quelli dovuti al ritardo con cui i pompieri intervengono per sedare un incendio, perché le linee di comunicazione sono state bloccate. Nella mappa geopolitico-cibernetica, oltre alle ambizioni della Cina va considerato lo sforzo della Russia, che ha il grande vantaggio di avere una solida tradizione di matematici e scienziati, ma soffre tra gli intellettuali per l’assenza di prestigio della carriera militare. L’India ha un buon potenziale, ma è solo agli inizi. C’è poco da dire circa le piccole potenze arabe, che, a mio parere, non hanno nessuna capacità specifica in materia, e che certo non possono pensare di sopperire a questa mancanza con la propaganda di Al Jazeera (per non parlare del risibile impegno militare messo in campo durante l’intervento in Libia…).

Ci sarebbe invece molto da dire sull’Europa, che non esiste come potenza cibernetica, ma che ha conosciuto un triste capitolo nella polemica, speciosa e tutta mediatica, contro il sistema di osservazione nato dall’accordo tra Usa, Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda e del tutto impropriamente etichettato come “Echelon” (in realtà, il sistema non aveva questo nome, che è un’immaginifica invenzione giornalistica, subito piaciuta a qualche burocrate europeo in vena di crociate). L’unico elemento di realtà al fondo di quello scontro era il risentimento degli esclusi (Francia e Germania) verso una struttura che non si è mai aperta a loro durante la Guerra fredda – peraltro a buona ragione, dato che i loro Servizi erano ampiamente infiltrati. In conclusione non mi sorprende la postura offensiva di Obama in materia di cyber-war. Questo è il presidente più aggressivo e militare che abbiamo avuto da tempo. Ha triplicato il numero degli attacchi con i droni, ha quintuplicato le truppe in Afghanistan, ha chiesto ai militari un’operazione ogni tre giorni – e non più ogni tre mesi com’era con Bush jr – ha spinto per interventi sempre più aggressivi. Gli unici a non essersene accorti, pare, siano quelli della sinistra europea, che continuano a mitizzarlo e che gli hanno perfino regalato il premio Nobel per la pace!

×

Iscriviti alla newsletter