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Io, l’Osservatore Romano, Ratzinger e… Monti. Parla Vian

Sessantuno anni, professore di filologia patristica presso l’università La Sapienza di Roma, Giovanni Maria Vian è dall’autunno 2007 il direttore dell’Osservatore Romano, il “giornale del Papa”. Come è cambiato il quotidiano della Santa Sede in questi anni? Cosa si prova ad avere il Papa come editore? E, soprattutto, c’è stato veramente l’endorsement vaticano alla candidatura di Mario Monti? Formiche.net lo ha chiesto direttamente al direttore Vian.

Direttore, lei ha definito l’Osservatore Romano come il quotidiano più elegante dell’editoria in lingua italiana, insieme a Il Foglio. Cosa lo rende tale?
A mio gusto un quotidiano si può definire elegante quando è sobrio ed essenziale. Il segno dell’eleganza consiste infatti nel non farsi notare. E un’impaginazione nitida ed equilibrata, con titoli non urlati e immagini efficaci, non può che giovare a un giornale. Tra i quotidiani, in Italia aggiungerei poi almeno Il Sole 24 Ore, pur nella sua particolarità, e la cifra stilistica del Corriere della Sera.

Lei ha descritto l’Osservatore Romano come un organo in parte ufficiale e in parte ufficioso. È quindi corretto affermare che quanto scritto all’interno del giornale può essere attribuito al Papa e alla Segreteria di Stato?
Eccezion fatta per i testi papali, la parte direttamente espressione dell’editore è piuttosto limitata. Ma, trattandosi dell’unico giornale della Santa Sede, è ovviamente possibile dedurre che quanto vi si pubblica non sia troppo lontano dal punto di vista della Santa Sede. È però altrettanto evidente che se esce la critica di un film, di un libro o di un fumetto, questo non significa automaticamente che al Papa o al cardinale segretario di Stato piacciano, o meno, i Beatles o i Blues Brothers, piuttosto che Tintin, James Bond, Harry Potter o Carlo Verdone, tutti argomenti di cui abbiamo scritto, anche più volte.

Da quando lei ha assunto la guida dell’Osservatore Romano, mi sembra che il quotidiano abbia una maggiore dimensione internazionale. Mi sbaglio?
No, non sbaglia, è proprio così. E ciò per indicazione di Benedetto XVI e della sua Segreteria di Stato. Ci è stato chiesto, infatti, di accentuare una caratteristica che, del resto, era propria del giornale sin dalle origini. L’informazione internazionale, rispetto al passato recente, è praticamente triplicata, e anche l’informazione culturale e quella religiosa puntano ad avere un respiro mondiale. Significativo è anche il fatto che stiamo sempre più valorizzando le edizioni del giornale in diverse lingue: sono sei settimanali e una mensile, curate da colleghi di una quindicina di paesi; per esempio, nell’edizione in lingua portoghese, sono rappresentati Brasile, Capo Verde e Portogallo. E credo che nessun giornale abbia ogni giorno sul suo sito notizie in sette lingue come abbiamo noi sul nostro (www.osservatoreromano.va), che tra l’altro è interamente accessibile in modo gratuito. Per la prima volta, poi, il giornale ha un’edizione settimanale, versione di quella in inglese, in una lingua scritta in caratteri non latini: il malayalam, parlato nell’India meridionale.

È per questo motivo che non avete scritto nulla sulle vicende personali di Silvio Berlusconi, tanto da venire criticati da La Repubblica?
Nelle conclusioni del libro “Singolarissimo giornale. I 150 anni dell’Osservatore Romano” (Allemandi), che ho curato insieme ad Antonio Zanardi Landi, ha scritto Sergio Romano che uno dei punti di forza del giornale della Santa Sede sta nella capacità di ridurre l’informazione all’essenziale. In tempi non lontani il quotidiano aveva due o tre pagine dedicate all’Italia, di cui una riservata alla cronaca di Roma. Oggi scegliamo le notizie italiane che abbiano importanza internazionale. E quando quelle su Silvio Berlusconi hanno avuto rilievo politico, ne abbiamo scritto. Come del resto abbiamo fatto per il già ministro francese Frédéric Mitterand e per Dominique Strauss-Kahn.

Lei ha innovato in maniera significativa l’Osservatore Romano. Paolo Rodari, vaticanista de Il Foglio, ha scritto che il giornale “è un esercizio difficile, spregiudicato e coraggioso insieme, perché fatto all’interno di mura e stanze che a tutti altri tempi, ritmi e modi sono abituate”. Quali sono state le principali novità?
A parte la maggiore internazionalizzazione, che lei ha menzionato, direi soprattutto lo sforzo per cercare di rendere l’Osservatore un giornale più vicino agli altri, pur sapendo che, per evidenti motivi, resterà “singolarissimo”, come lo definì Montini, il futuro Paolo VI. Nessuno, infatti, può vantare un editore così “speciale”. Ferruccio de Bortoli, quando era direttore del Sole 24 Ore, mi disse, parlando del Papa: “Il tuo è un azionista unico”.

Pilastro del nuovo giornale sono le donne. Da Silvia Guidi a Giulia Galeotti, le prime due redattrici del quotidiano in un secolo e mezzo di storia, sino ad Anna Foa e Lucetta Scaraffia. Per quale motivo ha deciso di puntare sulle donne? Ha incontrato resistenze presso chi sta sopra di lei?
No, semmai è il contrario. La maggiore presenza femminile nel quotidiano è stata un’esplicita richiesta. Benedetto XVI vuole valorizzare le donne e lo specifico contributo che possono portare ovunque sia possibile. Così ho nominato due bravissime colleghe alla guida delle edizioni settimanali in tedesco e in spagnolo: Astrid Haas, che è austriaca, e Marta Lago, spagnola. Su queste premesse, poi, è nato, da un’idea di Ritanna Armeni e di Lucetta Scaraffia, che sono nostre editorialiste, un mensile femminile, “donne, chiesa, mondo” (al quale è possibile abbonarsi per un anno a soli dieci euro), ma con collaborazioni anche maschili. Un’idea felice e senza precedenti, che ha suscitato molto interesse e, come ogni novità, un po’ di sorpresa, anche se complessivamente in positivo.

Cosa si prova ad avere per editore il Papa e dovere rispondere a lui? È forse per questo che, nel suo primo editoriale, ha fatto sue le parole del cardinale Montini definendo l’Osservatore Romano “un giornale difficile, anzi difficilissimo”?
Sicuramente anche per questo. Ma, soprattutto, perché vi è la responsabilità di rappresentare nel mondo dei giornali un’istituzione unica al mondo. Una realtà, per di più, non soltanto “supernazionale”, ma soprattutto religiosa. Per la verità non ci penso troppo, e cerco piuttosto, giorno per giorno, di fare fronte a questo impegno, ovviamente con l’aiuto di molte persone. Come ogni giornale anche l’Osservatore Romano è frutto di un lavoro di squadra, e questo ora appare anche nella gerenza. Sino all’autunno del 2007, invece, sul giornale figurava solo il nome del direttore.

Si è mai chiesto chi siano i lettori dell’Osservatore Romano?
Beh, innanzi tutto vanno cercati all’interno del piccolo mondo vaticano. Il Papa ci legge sempre con grande attenzione, e così fa anche il cardinale segretario di Stato, un vero appassionato di informazione. Il quotidiano è poi diffuso in Curia, negli ambienti diplomatici, giornalistici, politici, tra molti laici e ora sempre più in rete. Da qui l’esigenza di una grande attenzione per cercare di commettere il minor numero di errori. Anche se ho sempre pronta la battuta che l’Osservatore Romano non è infallibile, mentre lo è, quando parla “ex cathedra”, il suo editore.

Subito dopo Natale, l’Osservatore Romano ha pubblicato un articolo dal titolo “La salita in politica del senatore Monti”. Molti osservatori vi hanno letto un endorsement vaticano alla candidatura di Mario Monti. È corretto?
Abbiamo espresso una valutazione positiva sulla persona e, in particolare, un apprezzamento per l’evidente intenzione di elevare il livello dell’impegno politico. Questo è ciò che è avvenuto e, d’altronde, l’Osservatore Romano non poteva fare diversamente. Manteniamo, infatti, un rispetto rigoroso nei confronti delle istituzioni e della dialettica politica, in Italia come negli altri Paesi. Bisogna poi tenere conto che cerchiamo sempre di registrare le novità nel panorama politico italiano. Abbiamo così scritto delle primarie nel Partito democratico e dei segnali di insofferenza per la degenerazione della politica, che invece va salvaguardata da ogni svilimento, come più volte ha raccomandato anche il presidente Giorgio Napolitano.

È indubbio che la Comunità di Sant’Egidio rappresenti uno degli sponsor di Mario Monti, forse il più importante. Lo stesso Monti ha più volte mostrato una certa vicinanza a questo movimento. Qual è, secondo lei, il vero rapporto tra Monti e Sant’Egidio?
Il presidente Monti stima sicuramente Andrea Riccardi, che per me è un amico da oltre un quarantennio, oltre a essere uno studioso che stimo e una firma autorevole dell’Osservatore da molto tempo. E un evidente apprezzamento vi è da parte di Monti per l’impegno di Sant’Egidio. Alcuni esponenti della comunità hanno poi deciso di candidarsi nelle liste centriste, ma ovviamente senza un appoggio del movimento in quanto tale.

In una recente intervista a Famiglia Cristiana, il cardinale Angelo Bagnasco ha dichiarato: “No ad indicazioni di voto e destra e sinistra convergano sulle questioni etiche”. È possibile, secondo lei, tale convergenza?
Non solo è possibile, ma a mio parere anche auspicabile. Il dibattito che si sta svolgendo, ad esempio, in Francia su alcune questioni che riguardano la famiglia dimostra come si tratti della via preferibile. Sono in gioco, infatti, esigenze etiche fondamentali. Mi preme sottolineare come, sempre in Francia, l’opposizione al “matrimonio per tutti” sia formata non solo da uomini di fede, bensì anche da intellettuali laici e da politici, sia di destra che di sinistra. Un dibattito culturale comune è possibile e doveroso, anche perché tali esigenze non sono patrimonio esclusivo di una confessione religiosa e riguardano tutta la società.

In un recente libro (“Il filo interrotto”), da lei curato per Mondadori, vengono analizzati i difficili rapporti tra il Vaticano e la stampa internazionale. Quali sono stati, a suo parere, i principali errori commessi, se così possiamo definirli?
Restando al pontificato di Benedetto XVI, il Papa ha dovuto sin dall’inizio affrontare dei pregiudizi negativi e ostili nei suoi confronti. Giorno per giorno, il Pontefice si è infatti trovato ad avere a che fare con la caricatura che per oltre un ventennio lo ha dipinto come “Panzerkardinal” e grande inquisitore: insomma, per citare il titolo con il quale Il Manifesto annunciò la sua elezione in conclave, con lo stereotipo che vede in lui “il pastore tedesco”. A ciò si è ben presto aggiunta la notazione, vera ma spesso maliziosa, di Papa teologo, perché si vuole sottolineare in questo modo che sia un intellettuale chiuso nelle sue stanze a scrivere libri e ad ascoltare buona musica, lontano dalla gente. A questo si sono aggiunte specifiche difficoltà, che nel libro “Il filo interrotto” (dove figurano due contributi storici di Lucetta Scaraffia e Andrea Riccardi sui pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II) sono analizzate da cinque autorevoli vaticanisti non italiani, invitati proprio dall’Osservatore Romano a esaminarle: i pregiudizi a cui ho accennato, il discorso di Ratisbona, il caso Williamson, la questione del preservativo e, infine, la tragedia degli abusi sessuali. Certo, da parte delle strutture informative della Santa Sede vi sono stati anche errori, come il Papa stesso ha ammesso senza alcuna reticenza. Ma la reazione è stata energica e positiva. E queste crisi, come poi quella relativa al trafugamento di documenti riservati, si sono alla fine rivelate come occasioni importanti, seppure dolorose, per purificarsi e rinnovarsi.

A Varallo, presso la Chiesa del Sacro Monte, vi è la famosa “parete gaudenziana”, di cui ricorre quest’anno il cinquecentesimo anniversario. Tale parete era usata dai francescani di allora per insegnare la dottrina della Chiesa. Qual è, secondo lei, oggi, la “parete gaudenziana” della Chiesa? È forse Twitter?
Ci sono, indubbiamente, tante pareti gaudenziane. Fino all’età moderna, ha prevalso l’arte, com’è largamente noto. Tra Ottocento e Novecento, poi, la Santa Sede ha saputo affrontare l’ambito della comunicazione senza complessi e con notevole creatività. La fondazione nel 1861 dell’Osservatore Romano è un esempio chiaro e unico nel suo genere: nessun’altra istituzione religiosa ha infatti un’espressione giornalistica analoga alla nostra. Oltre un secolo dopo, Giovanni Paolo II ha dimostrato di sapere dominare i media. Oggi, non esiste ancora una generazione di responsabili della Chiesa formata dai cosiddetti nativi digitali. E questo, ovviamente, per ragioni anagrafiche. Ma è indubbio che la tradizione cristiana si è sempre caratterizzata per l’attenzione alla comunicazione, e credo che continuerà a esserne esperta. E questo proprio perché i cristiani sono “esperti in umanità”, per riprendere l’espressione di Paolo VI quando nel 1965 parlò alle Nazioni Unite.

All’inizio del caso Vatileaks, lei ha partecipato, quale ospite, a una puntata de “Gli Intoccabili” su La7. Rientra forse nei compiti del direttore dell’Osservatore Romano andare in televisione per difendere il Papa e la Chiesa?
Penso che il primo compito di un direttore, e dunque anche del direttore del giornale della Santa Sede, debba essere quello di parlare soprattutto attraverso il giornale che guida. Può tuttavia capitare che di tanto in tanto ci sia il bisogno o l’opportunità di intervenire anche altrove. Ma senza dimenticare quanto ho appena detto.

Un’ultima domanda. Come si diventa direttore del “giornale del Papa”?
Non esiste un percorso da seguire ma, come per ogni altro giornale, deve evidentemente esistere un rapporto di fiducia con l’editore. E questo emerge molto bene dalla storia dell’Osservatore Romano e dei direttori che mi hanno preceduto. Nella lettera che il Papa ha voluto indirizzarmi quando ho assunto l’incarico vi è poi un cenno, che mi ha commosso, al fatto che nella mia famiglia vi è una tradizione di servizio alla Santa Sede. E per quanto mi riguarda personalmente, ha forse influito il fatto che, oltre ad avere da quasi un quarantennio qualche dimestichezza con il mondo dell’informazione, mi sono dedicato professionalmente allo studio della tradizione cristiana.

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