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Il primo conclave di Xi

L’analisi risale a due settimane fa, quando ancora le dimissioni di Benedetto XVI erano soltanto un caso di scuola. Dalle colonne dell’Asia Times Online, Francesco Sisci analizzava l’approccio cinese al Vaticano. Le considerazioni dell’editorialista del Sole 24 Ore partivano dall’età di Joseph Ratzinger. Era molto probabile che per motivi anagrafici il nuovo leader cinese Xi Jinping, che guiderà la Repubblica popolare per i prossimi dieci anni, dovesse prima o poi affrontare un cambio di guida in Vaticano. Quella che al momento era soltanto un’ipotesi e ora realtà.

Santa Sede e Pechino non hanno rapporti diplomatici, pertanto nessun rappresentante cinese presenziò all’elezione di Benedetto XVI nel 2005. Al contrario sfruttò la propria presenza l’allora presidente taiwanese Che Shui-bian, che poté usare il palcoscenico internazionale offerto dal piazza San Pietro per perorare la causa indipendentista. Pechino cercò di diminuire l’importanza dell’evento, ricorda Sisci, e fu facilitata dal clima internazionale non ostile con l’attenzione degli Stati Uniti concentrata sui conflitti in Iraq e in Afghanistan. L’assenza cinese a marzo avrà tuttavia un impatto molto più importante considerato lo scenario internazionale attuale.

I cattolici cinesi sono 10 milioni su una popolazione di 1,4 miliardi. Il tema della libertà di religione è uno dei principali punti del rapporto tra la Cina e l’Occidente e il dialogo con Roma potrebbe essere essenziale. Sui rapporti pesa tuttavia una divisione che risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la Cina comunista e la Santa Sede ruppero le relazioni diplomatiche con l’espulsione del nunzio apostolico, Antonio Riberi, e con l’inizio della pratica delle ordinazioni autogestite durante il periodo maoista. Da allora i rapporti dello Stato cinese con i fedeli sono gestiti dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Ccpa), cui sono affiliati circa 5 milioni di fedeli secondo i dati forniti dalla stessa organizzazione, e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica, approvate dal governo. Entrambe riconoscono l’autorità spirituale del papa, ma non il suo potere a nominare i vescovi. Ed entrambe sono opposte alla Chiesa clandestina che riconosce il primato di Roma.

Altri due punti toccati da Sisci sono la capacità della dirigenza cinese di intervento negli affari religiosi e l’aumento delle conversioni in Asia. Soprattutto quest’ultimo aspetto è da tenere in considerazione. Anche se forse a sentire le ipotesi sui papabili che girano in queste ore l’ipotesi di un papa asiatico, magari filippino e vietnamita sembra lontana, sebbene nei rapporti con la Cina sarebbe una scelta da considerare. Può la Chiesa dirsi veramente universale senza la Cina?, Conclude Sisci. E può Pechino farlo?

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