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Debito pubblico, un piano per il governo Letta

La decisione del Consiglio dell’Unione europea di chiudere la procedura di infrazione per deficit eccessivo è un capolavoro di ipocrisia: mentre prende atto che “da una valutazione globale risulta che la situazione di disavanzo eccessivo in Italia è stata corretta”, il resto del documento è di tutt’altro tenore: ogni frase ha una stilla di veleno.

Ad esempio, quando si citano le recenti misure relative alla sospensione del pagamento dell’Imu, si sottolinea che «”in caso di mancata adozione entro la fine di agosto di una riforma con effetti neutri sul bilancio, la rata sospesa dovrà essere versata entro il 16 settembre”. La scadenza dei 100 giorni preannunciati dal premier, Enrico Letta, all’atto della richiesta di fiducia al Governo è cronometrata: non ne verrà concesso neppure uno di più.

Ma la sorpresa viene dopo. Si constata che il rapporto debito/pil è aumentato di 10,6 punti percentuali tra il 2009 e il 2012, anche a seguito del contributo recato dall’Italia all’assistenza finanziaria a favore degli Stati membri della zona euro, e che «poiché le condizioni cicliche rimangono negative, si prevede che il debito pubblico lordo salga al 131,4% del pil nel 2013 e al 132,2% nel 2014, anche a causa del pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione, pari a 2,5 punti percentuali del pil, previsto nel 2013-2014». La miccia viene accesa dal paragrafo 6: “Il Consiglio rammenta che, a partire dal 2013, anno successivo alla correzione del disavanzo eccessivo, l’Italia dovrà realizzare pregressi a un ritmo adeguato verso il proprio obiettivo a medio termine, compreso il rispetto del parametro di riferimento per la spesa, e compiere sufficienti progressi verso il rispetto del parametro del debito a norma dell’articolo 2, paragrafo 1 bis, del regolamento (CE) n.1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento della modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi”.

Siamo al paradosso: mentre si dichiara chiusa la procedura per deficit eccessivo, ci si avverte che sta per essere aperta quella per la mancata riduzione del debito eccessivo. La norma richiamata prevede infatti che, qualora uno Stato abbia un rapporto debito/pil che supera il 60%, si considera che il debito eccessivo “si stia riducendo in misura sufficiente, e si avvicini al valore di riferimento con un ritmo adeguato, se il differenziale rispetto a tale valore è diminuito negli ultimi tre anni a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento, sulla base delle modifiche registrate negli ultimi tre anni per cui sono disponibili dei dati”.

In pratica, già a partire dal 2013, e a maggior ragione nel 2014, il rapporto debito/pil dell’Italia dovrebbe ridursi rispetto al 2012, anno in cui si è constatato il venir meno del disavanzo eccessivo. E invece il rapporto sale perché diminuisce il denominatore: nel 2012 è sceso del 2,4%, quest’anno se va bene solo dell’1,8%.

Che il Fiscal compact fosse una trappola politica, era ben chiaro; ora si sta dimostrando un tunnel senza uscita, e non solo per l’Italia. Ormai sono in tanti a chiedere una strategia diversa, abbandonando il rigore draconiano anche per evitare che in autunno il disagio sociale divenga insostenibile. C’è chi propone un accordo politico con la Commissione europea per sforare sul deficit per almeno due anni, al fine di aumentare la domanda interna e la competitività internazionale: servirebbe una riduzione del cuneo fiscale di almeno 50 miliardi, circa il 3% del pil.

C’è chi invece sostiene che spetta alla Bce fare ancora un passo in avanti, con operazioni non convenzionali, imitando la Fed e la Banca del Giappone. C’è chi, come fa la Commissione europea, continua a fare un elenco delle riforme strutturali (giustizia, istruzione, mercato del lavoro): purtroppo, anche se fossero approvate domani stesso, avrebbero un impatto solo nel medio periodo.

Su queste colonne si sostiene da tempo che occorre affrontare prioritariamente il nodo del debito pubblico, abbattendolo con misure straordinarie. Oggi siamo ancora più convinti che questa sia la soluzione indispensabile. Le ricette che girano sono inutili o dannose: gli incentivi studiati per creare una staffetta sul posto di lavoro impoveriscono gli anziani e precarizzano i giovani e il cosiddetto reddito di cittadinanza è solo un’elemosina di Stato, a 600 euro mensili, sulle spalle di chi produce e lavora davvero.

L’economia italiana deve tornare a crescere in modo sano: serve occupazione vera, lavoro vero e guadagni veri. Il problema italiano è sopratutto finanziario: eccesssivo indebitamento dello Stato, scarsa capitalizzazione delle imprese, pericolosa esposizione delle banche verso una economia ormai in depressione. Il peso degli interessi sul debito pubblico è insostenibile: sommando quanto è costato dal 2003 al 2011, arriviamo al 55% del pil, rispetto al 29,8% pagato dalla Francia ed al 31,1% della Germania.

Serve una operazione straordinaria una Offerta pubblica di scambio (Ops) da parte del governo, per ristrutturare almeno mille dei 2 mila miliardi di debito pubblico, detenuto ormai per il 60% da cittadini, banche, assicurazioni, fondi di investimento italiani. Occorre sostituire 1.000 miliardi di titoli del debito pubblico con 650 miliardi di nuovi titoli a lungo termine, indicizzati all’inflazione e al 20% della crescita del pil reale (come dicono Savona-Rinaldi) e con 350 miliardi di titoli di proprietà del Fondo patrimoniale degli Italiani (secondo la proposta Monorchio-Salerno).

Bisogna arrestare da un lato la caduta del pil e il crollo progressivo dei valori finanziari e patrimoniali (crediti, titoli e proprietà immobiliari) e dall’altro avviare il rilancio dell’economia effettuato senza emettere nuovo debito pubblico.

L’operazione consentirebbe di:
a) abbattere immediatamente il debito pubblico di 200 miliardi (circa il 13% del pil), riportandolo a quota 1.800 miliardi e riducendo il rischio Paese e quindi il costo del credito da parte di imprese e famiglie;
b) ridurre stabilmente l’onere per gli interessi sul debito pubblico di almeno 35 miliardi annui (oltre il 2% del pil) al fine di abbassare la pressione fiscale sul lavoro e le imprese (Irap’), creando così una corrispondente maggiore domanda interna per consumi ed aumentando la competitività internazionale;
c) far partecipare i privati al Fondo patrimoniale degli Italiani, cui lo Stato e le amministrazioni locali conferiscono asset mobiliari e immobiliari, ivi compresi i cespiti delle concessioni, per complessivi 700 miliardi. Asset da gestire e da valorizzare, non da vendere o da svendere come si è fatto finora: ai privati sarà comunque garantito un ritorno minimo pari a quello dei titoli di Stato attribuiti con lo scambio e l’esonero 25ennale da tassazione delle plusvalenze;
d) creare tre Fondi, per complessivi 150 miliardi (circa il 10% del pil) per:
1) finanziare con 50 miliardi la ripresa del mercato immobiliare garantendo i nuovi mutui e accollando 5 anni di preammortamento della quota di pagamento degli interessi;
2) sgravare con 50 miliardi i bilanci bancari dalle sofferenze in essere per i crediti erogati alle imprese (rimanendo in ogni caso esclusa la possibilità di recuparare minusvalenze su operazioni di trading, proprietario o meno, e su partecipazioni azionarie);
3) creare con 50 miliardi una disponibilità di crediti di imposta pari al 100% della ricapitalizzazione effettuata dalle piccole e medie imprese mediante l’apporto diretto dei soci, il conferimento degli utili (che vengono comunque detassati), ovvero il finanziamento di start-up.

In realtà girano ben altri progetti: c’è chi è pronto a spolpare le banche degli asset più redditizi, farsi cedere per un tozzo di pane i crediti in sofferenza, mettere le mani sul patrimonio immobiliare delle famiglie in difficoltà approfittando della crisi. L’alternativa è di pagare meno rendite sul debito pubblico per ridurre le tasse, agevolare l’acquisto della prima casa, ricapitalizzare le imprese, ed evitare grane grosse anche per le banche. Ormai si gioca a carte scoperte.

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