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Vendere Eni, Enel e Finmeccanica significa svendere l’Italia

Il piano di privatizzazioni annunciato dal governo divide il mondo economico e politico. Per i sostenitori del progetto, una nuova ondata di dismissioni è essenziale per liberare risorse e abbattere il debito pubblico. Per Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss e curatore del rapporto “Nomos e Kaos” di Nomisma, il premier Enrico Letta e il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni dovrebbero invece recedere dal provvedimento. In una conversazione con Formiche.net l’esperto di geopolitica spiega perché vendere pezzi di Eni, Enel e Finmeccanica rischierebbe solo di infiacchire ulteriormente l’Italia sul piano domestico e internazionale.

Che effetti potrebbe avere il piano di dismissioni annunciato dal governo?
Contribuirà certamente a indebolire ulteriormente l’Italia, che potrebbe perdere il controllo di ciò che resta della parte migliore del proprio patrimonio industriale, quella di maggiore valenza strategica, perché si parla di armi ed energia. Su questo fronte, è forte l’impressione che l’Italia non abbia molti alleati su cui contare. Siamo come in una tenaglia. Negli scorsi anni, era soprattutto l’Unione Europea a premere ed occorre dire che in qualche modo, con molto mestiere, il Governo Monti una rete di protezione è riuscito comunque ad allestirla, seppur meno forte di quella che aveva trovato al suo arrivo a Palazzo Chigi.

Una rete contro quali attacchi?
Si fanno sentire molto le potenze anglosassoni, che sono interessate al destino di Eni e Finmeccanica per un complesso di ragioni fin troppo chiaro. Il Cane a Sei Zampe è storicamente una spina nel fianco, sia per il ruolo svolto in Nord Africa e Medio Oriente che per gli interessi nello spazio ex-sovietico. La cartina di tornasole sarà il destino di Saipem, sotto attacco da parte della BlackRock americana e pilastro dei grandi gasdotti con tratte sottomarine voluti da Putin. Quanto a Finmeccanica, partecipa alla produzione di sistemi d’arma complessi che coinvolgono la crema delle capacità industriali occidentali, mentre mantiene in piedi partnership con Mosca. Non vedo di cosa ci si meravigli.

L’Unione europea preme per unificare i comparti di Difesa degli stati nazionali e l’Italia sembra condividere questo percorso. C’è però chi è convinto che ciò possa avvantaggiare solo le imprese concorrenti tedesche e francesi.
Sento ripetere questa storia da un certo tempo. Eppure non sono molto persuaso che sia la lettura più corretta di quanto sta avvenendo. Può esserci del vero, anzi c’è di sicuro. Ma io noto alcuni fatti: il primo è che Finmeccanica lavora molto di più con americani e britannici di quanto non faccia con tedeschi e francesi. È presente con molti impianti tanto negli Stati Uniti quanto in Gran Bretagna. Ciò la rende un boccone appetibile per Berlino e Parigi, ma non penso che ad ovest di Calais un tentativo franco-tedesco di rilevarla lascerebbe indifferenti. In secondo luogo, non mi pare che Francia e Germania siano perfettamente allineate in fatto di produzioni per la Difesa. Si dichiarano favorevoli a collaborare tra loro fino al momento in cui ritengono di potersi reciprocamente assorbire. Per poi cambiare idea, quando capiscono che non sarà così. Il terzo è la scelta fatta sui nuovi vertici dell’azienda di Monte Grappa. Il Prefetto Gianni De Gennaro, che ora si trova alla sua testa, vanta eccellenti rapporti con gli americani ed è quindi uomo ideale per cooperare con loro. Lo è molto meno per cedere di fronte a francesi e tedeschi.

Questo tipo di privatizzazioni dei cosiddetti “campioni nazionali”  è in linea con quanto accade nel resto d’Europa?
In parte, nel senso che rientrano in un trend generale iniziato con l’avvento al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Ma ci sono dei distinguo da fare. Distinguo a mio avviso decisivi. Una cosa è privatizzare dove esistono cospicui capitali indigeni e comunque una cultura dell’interesse nazionale che è condivisa da tutta un’élite. Un altro è farlo dove non esistono né gli uni né l’altra, come da noi. L’Italia ha storicamente sempre sofferto a causa della scarsa concentrazione di capitale privato: proprio per questo, tra l’altro venne creato il sistema delle Partecipazioni Statali, che svolse un ruolo essenziale nel Miracolo Economico prima di esser travolto insieme alla Prima Repubblica. Privatizzare in Italia adesso, solo per far cassa, significherebbe consegnare le nostre imprese a chi dispone di risorse e sa come impiegarle strategicamente.

Che senso ha, allora, un piano di dismissioni del genere?
Non ha nessun senso, come non lo ha chiedere di rinunciare agli F-35 per costruire asili ed ospedali: se non ci si riesce con una spesa pubblica da 800 miliardi di euro all’anno, è illusorio che un miliardo in più tolto ai caccia ogni anno possa fare il miracolo. Mentre è certo che rinunciare all’aereo urterebbe alcune sensibilità negli Stati Uniti. Abbattere il debito pubblico dello 0,5-1%? Parliamo di 10-20 miliardi di euro. Ne vale la pena, a fronte dei posti di lavoro che verrebbero perduti, soprattutto nei comparti ad alto valore aggiunto? Ci lamentiamo che i nostri più brillanti laureati debbono emigrare e poi al tempo stesso distruggiamo la possibilità di occuparli. Mi pare insensato.

Se non al nostro Paese, a chi potrebbe giovare?
Credo che una cosa del genere farebbe comodo solo a chiunque desideri un’Italia più piccola di ciò che è già diventata: e sono in tanti. In primo luogo tutti gli europei che hanno mal digerito l’ascesa che ci ha portato fin dentro il vecchio G7. Un problema per noi è che il tentativo di ricacciarci indietro può avere successo, perché vi è in Italia chi pensa che fare soldi con il turismo o l’energia e l’aerospazio sia la stessa cosa.

Qual è la differenza?
Senza l’industria, il nostro Paese può anche sciogliersi, per compromissione della sua ragione sociale, che è lo sviluppo. Avrebbe ragione chi si chiede, come Lucio Caracciolo, che senso ha ancora l’Italia. Siccome io penso che l’abbia, dobbiamo fare il possibile per tener duro.

La guerra industriale e per le materie prime, però, come insegna il caso Kazakhstan, non è un pranzo di gala.
Il problema è solo in parte economico, è prima di tutto politico. Come hanno evidenziato Rosario Priore e Giovanni Fasanella, l’Italia è stata una grande vincitrice della Guerra Fredda: un lungo periodo nel quale riuscì al nostro Paese di sovvertire gli esiti del Secondo Conflitto Mondiale, in Libia ad esempio, ma anche in Tunisia e per certi versi in Algeria. Siamo invece tra i perdenti di questa fase transitoria iniziata con il crollo del Muro di Berlino.

L’Italia è a un punto di non ritorno?
Qualche margine di manovra forse ci sarebbe ancora. Ma non riusciamo a sfruttarlo a dovere. Forse perché vogliamo esser amici di tutti, nonostante tutto, e non capiamo che non possiamo più esserlo. Tra l’altro generando confusione nella testa di chi vorrebbe comprendere con chi stiamo. I nostri politici continuano, ad esempio, a blandire tanto il Presidente Obama quanto la Signora Merkel, che sono portatori di interessi contrapposti. Dovremmo invece scommettere sull’uno o sull’altra, perché tentare di volgere a nostro favore i loro contrasti sarebbe per noi velleitario. Ed accontentarli uno alla volta li scontenta entrambi.

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