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Grazia e amnistia, le amnesie del Pd e gli errori di Berlusconi

Il Pd somiglia ad un’attività economica che prospera nell’economia sommersa. Assume una ragione sociale per alcuni anni, poi, all’improvviso, chiude e riapre altrove con un’altra ditta, dopo aver lasciato i dipendenti, i fornitori, gli enti previdenziali e il fisco con un palmo di naso.

Le attività di volta in volta nuove non hanno debiti che restano sulle spalle di quelle abbandonate. Così è il Pd: le sue componenti ritengono di essere rinate ieri e di non dover rispondere delle responsabilità trascorse. Si rifanno una verginità politica grazie all’amnesia del passato. Prendiamo il caso della grazia, un atto che la Costituzione attribuisce alla discrezionalità del capo dello Stato, quindi di per sé conforme alla legalità in senso stretto. Ma questa facoltà è preclusa quando si tratta di Silvio Berlusconi.

Eppure, la sinistra comunista e post comunista non ha tenuto questa linea di condotta in ogni circostanza. Nell’immediato dopoguerra il Pci fece espatriare nei Paesi socialisti (ovvero sottoposti alla tirannia del Patto di Varsavia) parecchi ex partigiani condannati dai tribunale per fatti di sangue. Taluni di loro furono impiegati nelle Radio che, da Praga e da Mosca, facevano propaganda in lingua italiana. Anni dopo, il Pci negoziò per loro la grazia (con il conseguente rientro in Italia) in cambio dei voti dei suoi gruppi parlamentari determinanti per l’elezione di alcuni presidenti della Repubblica.

Non intendiamo speculare su questi avvenimenti lontani, in qualche modo riconducibili alla tragedie del dopoguerra. Ci basta rievocare il caso Sofri. L’ex leader di Lotta continua (sicuramente un “cattivo maestro” di tanta sedicente “meglio gioventù”) venne condannato in via definitiva – come mandante dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi – dopo un iter processuale lungo e travagliato, caratterizzato da colpi di scena e da sentenze contraddittorie. Adriano Sofri, accusato dall’esecutore materiale, aveva sempre proclamato la propria estraneità e, una volta condannato, accettò con dignità di scontare la pena (sia pure potendo contare su di un’ampia agibilità comunicativa), rifiutando di chiedere un provvedimento di grazia che probabilmente gli sarebbe stata concessa.

La causa di Sofri venne assunta da ampi settori della sinistra, come se per lui vi fosse una presunzione di innocenza. Si arrivò persino a teorizzare (da parte di coloro che hanno preteso la condanna all’ergastolo, 50 dopo la strage delle Ardeatine, di un ottuagenario come Priebke, il quale continua a scontare tale pena ormai da centenario) che l’uomo Sofri non era più lo stesso di venticinque anni prima e che di conseguenza veniva condannata una persona cambiata.

Per Berlusconi non esistono attenuanti. Nessuno si chiede se non sia una bizzarria condannate per evasione il maggior contribuente italiano. Il Pd è riuscito ad intrappolare il Cavaliere, ha la possibilità di toglierlo di mezzo e non è disposto a rinunciare ad un’occasione così propizia, ad un assist che consente di segnare a porta vuota. Il Pd è come lo scorpione che uccide a colpi di pungiglione avvelenato la rana che lo sta aiutando a guadare un fiume profondo.

Ma anche Berlusconi sta sbagliando tutto. Quando ci sono di mezzo delle sentenze passate in giudicato le soluzioni politiche esistono soltanto se si muovono nell’ambito dell’ordinamento giuridico. Certo, a monte è necessario che ci sia una volontà politica a risolvere un problema; ma ciò sarà possibile soltanto attraverso modalità e strumenti conformi alla legge. Scorciatoie non ce ne sono. I milioni di voti non sono un’amnistia di fatto e neppure un salvacondotto.

Siamo proprio sicuri che non ci siano più possibilità di difendersi da un’aggressione giudiziaria come quella della condanna nel processo per i diritti tv? La Giunta del Senato è assolutamente abilitata, in sede giurisdizionale, a rivolgersi alla Corte Costituzionale sul tema della retroattività della legge Severino (votata anche dal Pdl perché sotto elezioni voleva spartirsi il bottino del populismo forcaiolo).

Vi sono molti giuristi – non certo amici del Cavaliere – che giudicano non infondata la richiesta alla Consulta. Non sono chiari, poi, i motivi che hanno indotto il collegio di difesa a non agire con più decisione nei confronti del comportamento anomalo del presidente della sezione feriale della Suprema Corte. Che senso ha volerla mettere in politica, come se, in questo caso, il fine potesse prescindere dai mezzi?

Il fatto è che il Cavaliere non ha scampo. Dopo aver tentato inutilmente le vie legali, molto più conveniente sarebbe per lui dimettersi autonomamente dal Senato e, pur dichiarandosi innocente, porsi a disposizione delle istituzioni, per scontare la pena se non sarà evitabile.

Berlusconi deve fare questo sacrificio per salvare il governo Letta ed impedire il caos nel Paese. Certo, anche il Pdl deve metterci del suo e non ostacolare ogni soluzione compatibile con la legalità (che è molto più complessa di mandare il Cavaliere agli arresti domiciliari o a fare volontariato in un centro per orfanelle).

Adesso, gli esponenti democratici somigliano al gatto Felix che è riuscito ad afferrare il canarino. Pronti a stappare bottiglie di champagne e a danzare per le strade per tutta la notte del 9 settembre. Non sarebbe un bel vedere per gli alleati. Ma non si vede via di scampo. Il vecchio Pci era capace di compiere svolte clamorose e di convincere i militanti della loro opportunità. Il Pd, invece, è nella mani di un esercito di ragazzotti allevati a Nutella e ad odio per il Cavaliere.

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