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L’industria italiana, sviluppo possibile e sindrome di Proust/2

“Vivere non è accettare tutto, ma scegliere, sfrondare, sacrificare. La linfa dell’albero sale solo quando i rami sono stati potati”
Ludovic Giraud

Dobbiamo dunque operare una rottura con il vecchio modello di sviluppo. Non chiedere genericamente più crescita, ma lavorare insieme per un nuovo assetto produttivo non più basato su investimenti ad alta intensità di capitale e bassa qualità del lavoro ma, al contrario, fondato sui processi professionali di condivisione in rete, sull’economia della conoscenza e della reputazione.

Dobbiamo provare a cambiare anche se sembriamo ancora un Paese troppo innamorato dei propri vizi per cambiare davvero. Pensiamo al dibattito sulle liberalizzazioni, sulla spending review o sulla Legge di stabilità: ognuno continua a rinchiudersi nella difesa di rendite non più sostenibili e si arrocca in una trincea di progressiva decadenza per cui, guardando al futuro, le riforme sono sicuramente necessarie, ma sempre da un’altra parte e con il contributo, in termini di sacrifici, sempre di qualcun altro che non siamo noi.

Tuttavia, i venti del cambiamento soffiano potenti da lontano e con effetti in qualche caso già visibili anche da vicino. Dobbiamo potare qualche ramo della pianta per farle produrre più frutti nel futuro? Se la risposta fosse positiva, forse varrebbe la pena di tagliare non solo rami secchi ma anche qualche ramo che, pur produttivo, lavora con logiche di monopolio e rendita di posizione. Facile a dirsi, difficile a farsi ma necessario, anche e soprattutto sul piano culturale.

Perché sul piano culturale? Perché selezione competitiva e meritocrazia hanno risvolti psicologici importanti per tutti e, in particolare, per le giovani generazioni. Parliamo tanto di rottamazione ma la verità è probabilmente un’altra: una cosa è fallire perché si combatte contro le raccomandazioni, le rendite, gli abusi di potere degli altri. Altra cosa è se il fallimento avviene in un ambiente competitivo, dove la colpa ricade direttamente sui limiti di ciascuno di noi. Il problema psicologico vero della concorrenza è che, alla fine, qualcuno vince e qualcuno perde e non c’è qualcuno a cui dare sempre la colpa. Tuttavia, questo riposizionamento culturale del nostro Paese, per quanto duro e faticoso, è ormai indispensabile perché i costi dell’assenza di sviluppo sono ormai insopportabili. Non esistono alternative se vogliamo valorizzare le nostre risorse per tornare a crescere. Dobbiamo ritrovare il futuro.

L’orizzonte concreto e pragmatico non deve essere allora quello di una mera crociata ideologica contro le rendite o l’immeritocrazia, ma quello di una politica capace di offrire una visione d’insieme per il futuro. Se la politica ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile, anche il sacrificio di qualche ramo può essere accettabile. Altrimenti, senza visione, senza progetto, ognuno si rinchiude nella difesa del proprio orticello, oppure nelle barricate corporative che hanno bloccato le riforme negli ultimi decenni. E, intanto, il Paese soffre.

È questo allora lo sforzo che è necessario fare: offrire una visione unitaria di lungo periodo ed individuare gli ostacoli politici che si sono finora frapposti alla loro realizzazione. Quali sono questi ostacoli? Lo abbiamo già detto: profondi ritardi culturali e strenue difese corporative. Se si vuole selezionare, non si può fare a meno di puntare su due parole chiave: mercato e valutazione che, però, sono concetti che provocano crisi di rigetto quando si tenta di impiantarli nella cultura collettiva degli italiani. Attratti da un generico egualitarismo di maniera, siamo sempre pronti a vedere l’ombra della disuguaglianza dietro a questi due approcci al mercato ed alla società. Perdendoci, ancora una volta, nella ricerca senza orizzonte di un tempo ormai perduto.

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