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Un paio di dubbi sulle primarie all’italiana

Università di Chicago, 22 febbraio 1897: il progressista Robert La Follette pronuncia un memorabile discorso contro la corruzione e il dispotismo imperanti nelle macchine di partito americane. Divenuto governatore del Wisconsin pochi anni dopo, promuove una legge che introduceva le primarie per tutte le cariche elettive. Oggi sono un istituto fondamentale della democrazia statunitense, pur in un cammino secolare segnato da aspri conflitti.

Le primarie rispecchiano il principio direttista per eccellenza, che è quello dell’investitura plebiscitaria dei leader politici. In questo quadro, i partiti – da associazioni private – si sono gradualmente trasformati in agenzie di pubblica utilità, che organizzano il processo di formazione della rappresentanza. Ben noti, inoltre, sono i controlli statali invasivi a cui sono sottoposte le loro attività, che ne condizionano fortemente lo stesso funzionamento interno.

Si tratta di un’esperienza, dunque, che matura in un sistema istituzionale assai diverso dal nostro. Si rifletta su un punto. Nella realtà europea si è fatto ricorso alle primarie (quasi) sempre per risolvere controversie intestine a un partito o a una coalizione elettorale. In altri temini, l’appello al responso diretto degli iscritti e dei simpatizzanti era spesso il sintomo di una crisi di legittimità della leadership. Ecco perché abbiamo visto gruppi dirigenti che, pur di sanare contrasti talvolta laceranti, hanno preferito rinunciare alle proprie responsabiltà e alle proprie prerogative decisionali.

In fondo, il rilancio del metodo delle primarie da parte di Angelino Alfano rientra in questa casistica. Per evitare una rottura formale con Berlusconi, si tenta di aggirare l’ostacolo proponendo nuove regole e nuove procedure per la selezione dei candidati alla guida del Pdl o -ancora non è chiaro – di Forza Italia. Ma in un “partito personale” le primarie o sono finte, o costituirebbero una sorta di “esproprio proletario” di chi ne detiene la totalità del pacchetto azionario. Sarebbe come chiedere al Cavaliere di recarsi  in Svizzera per celebrare il suo “suicidio assistito”.

Nel centrosinistra le primarie, che risalgono all’epoca dell’Ulivo, hanno avuto un successo notevole perché sono state l’unico mezzo a disposizione dei suoi elettori per far sentire la propria voce. Sono però esposte a un non trascurabile rischio. Da linfa della partecipazione democratica possono infatti tramutarsi – come è accaduto in più di una circostanza – in una agorà manipolata dai demagoghi. Questo non significa sminuirne l’importanza. Significa che – senza un partito di riferimento coeso – può prendere il sopravvento l’attrazione per scorciatoie di tipo “cesaristico”, anzitutto nelle zone più deboli del paese (a cominciare dal Mezzogiorno).

Le primarie – lo ribadisco – sono state il tentativo più organico fatto a sinistra per fronteggiare la crisi del partito di massa. Ma sono stare anche il brodo di coltura di lotte senza esclusione di colpi tra capi locali e correnti del Pd (di cui è piena la cronaca di questi giorni), per l’affermazione di ambizioni non sempre edificanti. A mio avviso, anche in questa luce vanno letti taluni episodi di malaffare che ogni tanto proiettano un’ombra sull’irreprensibilità del Partito democratico.

Strategie drammatizzanti, che enfatizzano oltre misura la discontinuità con il passato, forse sono necessarie per galvanizzare le truppe di Matteo Renzi. Possono tuttavia generare attese eccessive, seguite da risultati deludenti. È il pericolo che corre l’idea del Pd come partito dei cittadini, postmoderno principe a vocazione maggioritaria (ma anche quello di Gramsci lo era). Lasciamo stare la questione della sua forma organizzativa. Alla fine, un compromesso tra logica dell’investitura dal basso della leadership e logica di apparato si sta definendo in qualche modo nel corso della campagna congressuale.

La questione è un’altra. Il partito degli elettori postula il partito degli eletti. E nel partito “pigliatutti” -perché di questo si tratta – conta prendere il maggior numero di voti con ogni mezzo, magari con programmi tagliati ad hoc per i ceti sociali da conquistare o per i territori in cui si compete. Questo, almeno, ci racconta l’esperienza anglosassone del partito elettorale di massa. Beninteso, la socialdemocrazia europea non è stata certo immune dalla tendenza “pigliatutti”. Ma raramente nelle sue pur variegate culture politiche si è smarrita la prospettiva dell’umanizzazione del lavoro come architrave del cambiamento sociale.

So bene che i piatti antichi della libertà e della solidarietà vanno oggi serviti con pietanze più gustose, ma a condizione che non si rivelino poi indigeste per i commensali.

Michele Magno

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