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La pazza idea di Enrico Letta su Poste

Avremo lavoratori-azionisti alle Poste e in altre aziende pubbliche? Presentando alle Camere il nuovo programma di governo, Enrico Letta non lo ha escluso. Per ora si tratta solo di un’ipotesi abbozzata timidamente, ma conferma che l’idea della partecipazione dei dipendenti alla proprietà (o agli utili) dell’impresa è come un fiume carsico: scorre silenziosa nelle culture storiche delle grandi forze politiche e sindacali, per riemergere all’improvviso nei momenti di forte crisi economica.

L’idea è antica. In Italia, risale al confronto che vide impegnati i costituenti nella formulazione dell’articolo 46 della Carta del 1948. Socialisti e comunisti allora sostennero, con un occhio rivolto ai Consigli di gestione postbellici, l’istituzione di organismi di controllo (distinti da quelli del sindacato) con poteri vincolanti sulle scelte strategiche dell’impresa. Dal canto loro, i democristiani sostennero la via dell’azionariato operaio – sulla scia della dottrina sociale della Chiesa e dell’enciclica “Quadragesimo anno” di Pio XI.

Nel Dopoguerra europeo i modelli più significativi di democrazia economica si contano sulle dita di una mano. In Germania, la Mitbestimmung si è sedimentata profondamente nella cultura delle relazioni industriali. In Svezia, i Fondi dei salariati – cari anche a Enrico Berlinguer – hanno avuto invece un’esistenza grama quanto effimera. Nel nostro Paese, il Piano di impresa proposto dalla Cgil verso la fine degli anni Settanta è rimasto lettera morta. Analoga sorte è toccata al Fondo di solidarietà per gli investimenti elaborato dalla Cisl.

Occorre chiedersi, inoltre, perché da noi il cointeressamento dei dipendenti all’azionariato o agli utili aziendali sperimentato nell’ultimo trentennio – dalla Zanussi alla Fiat – è stato assai avaro di risultati. Forse ne sono mancati taluni presupposti fondamentali. Il primo: rapporti tra manager e  sindacati basati sulla reciproca fiducia. Il secondo: competenze specifiche in grado di utilizzare con efficacia i diritti di informazione previsti dai contratti.

Non basta “partecipare”, insomma, ma è necessario anche contare nella vita dell’impresa. In proposito, ricordo che James Meade – forse il teorico più illustre dell’economia della partecipazione – sconsigliava l’ingresso dei lavoratori nella proprietà del capitale, perché avrebbe ostacolato le innovazioni tecnologiche e organizzative che risparmiano manodopera. In altri termini, perché avrebbe fomentato un potenziale conflitto di interessi tra dipendenti-azionisti e dipendenti-lavoratori. Mi pare un argomento non privo di qualche consistenza.

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