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La guerra dei simboli sull’articolo 18

Se Matteo Renzi riuscirà a risparmiarci l’ennesimo tormentone sull’articolo 18, dovremo riconoscere che ha la stoffa del leader. Da oltre un decennio il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è inquinato da una guerra dei simboli insensata, che ha offuscato la ricerca di soluzioni ragionevoli in un campo che richiede insieme forti dosi di audacia innovativa, competenza tecnica e realismo politico.

Non è sembrato molto importante il fatto che l’Italia – con la sua imprenditorialità diffusa, il suo lavoro autonomo e la sua economia sommersa – è forse il Paese più flessibile del mondo occidentale. Né è apparso meritevole d’attenzione il fatto che, dal lato dei diritti dei lavoratori, niente li difenda meglio che una condizione di piena occupazione.

Ne terrà conto il “job act” promesso dal segretario del Pd? Vedremo. Per ora si è limitato a stoppare le dichiarazioni frettolose e piuttosto incaute di alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, che rischiano di riaprire vecchi scontri ideologici di cui nessuno avverte il bisogno. Una scelta saggia, accompagnata solo – come si conviene per avviare con serietà un confronto – dall’indicazione di tre grandi obiettivi: impieghi più stabili, licenziati più tutelati, ammortizzatori sociali più universali.

In questo senso, quella del contratto unico d’inserimento è sicuramente una buona idea, perché si prefigge di ridurre l’area dei rapporti di lavoro precari e la frammentazione delle tipologie contrattuali. Le proposte di legge che giacciono alle Camere, a partire da quella presentata da Pietro Ichino, costituiscono già una buona base di discussione. Può entrare in ballo anche una sospensione temporanea dell’articolo 18 per i neoassunti? Sì, ma non sarebbe un dramma. Il dramma vero è quello della disoccupazione giovanile di massa.

La cosiddetta flexsecurity, però, è un’altra cosa. Come è noto, si tratta di un neologismo con cui è stato etichettato il modello danese, ovvero la combinazione tra alta flessibilità nel rapporto di lavoro e alta sicurezza nel mercato del lavoro. I due aspetti sono inseparabili. Nella terra di Amleto c’è una disciplina dei licenziamenti assai permissiva in quanto c’è un sistema di welfare assai generoso. La prima è accettata perché il secondo è efficace. Da noi c’è lo spazio per un compromesso tra elevato livello di tassazione e robusti sussidi per la formazione e l’occupabilità dei lavoratori? Spazio che chiama in causa non soltanto le finanze pubbliche, ma la cultura delle relazioni industriali e lo stesso spirito civico che caratterizza i comportamenti individuali e collettivi di una nazione.

Nella prospettiva immediata, questo spazio non c’è. Ma si può cominciare a costruirlo. Solo il tentarlo sarebbe una vera rivoluzione. Non so se il “job act” di Renzi dirà che occorre spendere di più. Ma se si deve spendere di più, e nel contempo si deve diminuire il cuneo fiscale, è necessario tagliare la spesa da qualche altra parte. Resta questa la cruna dell’ago di una politica sociale autenticamente riformista.

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