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Eni, Enel e Poste. Le poco larghe intese fra Mucchetti e Lanzillotta sulle privatizzazioni

“Privatizzare tutto e subito. Non per far cassa ma per promuovere concorrenza, trasparenza, efficienza, riduzione dei costi e miglioramento dei servizi in ogni comparto della vita economica”. È l’appello al mondo politico lanciato nel Rapporto “Privatizzare. Cosa, come e perché” redatto dall’Istituto Bruno Leoni e dal think-tank GLOCUS. Il rapporto compie un’ampia panoramica dei gangli produttivi in mano allo Stato e alle amministrazioni locali e suggerisce al governo una road map di liberalizzazione del mercato italiano.

I SUPPORTER DEL MERCATO

Fautrice di un percorso incisivo di alienazioni di asset industriali pubblici è Linda Lanzillotta, presidente di GLOCUS, senatrice di Scelta civica e vicepresidente di Palazzo Madama. Guardando all’esperienza degli ultimi vent’anni, e intenzionata a rendere le privatizzazioni un’iniziativa di risanamento strutturale e di lungo termine della nostra economia, la parlamentare montiana giudica così il programma di cessioni per 12 miliardi di euro annunciato dal governo: “Un obiettivo modesto rispetto allo stock di quote detenute dallo Stato per 90 miliardi. E senza considerare le partecipazioni tramite Cassa depositi e prestiti”. Rilevando come la vendita di azioni verrà realizzata senza perdere il controllo delle società coinvolte, l’esponente di SC teme un’operazione al ribasso, che si traduce nella “pura immissione di partner privati in realtà monopolistiche”.

A suo giudizio, prima di procedere alla valorizzazione e vendita delle aziende pubbliche, è necessario attuare una liberalizzazione preventiva del mercato dei servizi. E cita fra tutti il comparto postale. A una condizione: “Le risorse ricavate dalla cessione di rami di Poste italiane non devono essere utilizzate per favorirne l’ingresso in Alitalia o nella gestione della rete Telecom, poiché in tal modo si consoliderebbero rendite di posizione per volontà politica”. Per evitare il rischio di trasferire monopoli dalla mano pubblica a quella privata, spiega l’ex ministro della Pa, bisogna puntare su gare aperte di tipo europeo per la loro assegnazione.

Le compagnie interessate, rimarca, non devono essere soltanto statali bensì anche territoriali, finora intangibili e per troppo tempo sorgente di abusi e sprechi. Realtà che per la vice-presidente del Senato devono rientrare nei vincoli del Patto di stabilità interno, perché altrimenti il prezzo della loro gestione arbitraria e irresponsabile ricadrebbe sui contribuenti con un aggravio di tasse e tariffe: “Esattamente ciò che accade con il Comune di Roma, per il quale lo Stato va a ripianare un disavanzo di 4 miliardi di euro senza intaccare le fonti di spesa e di inefficienza”.

Altro pilastro del processo di privatizzazioni riguarda le dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico. Progetto che tuttora irrealizzato. La ragione, osserva Lanzillotta, risiede nella scelta delle amministrazioni locali, che con l’esercizio dei poteri urbanistici non lo valorizzano in termini di reddito e profitto economico – vedi i musei – e non lo rendono appetibile. L’approccio all’apertura del mercato deve essere dunque multi-disciplinare: finanziario, di mercato, di valutazione dei costi e benefici per gli utenti. “Un’ottica ben diversa dal ‘modello Draghi’ adottato dagli esecutivi degli anni Novanta e finalizzato ad accrescere le entrate erariali con la vendita delle aziende pubbliche”.

Ragionamento che risuona nelle parole di Carlo Stagnaro, direttore Ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. Per il quale i comparti da coinvolgere nel processo di privatizzazioni “aperte ad acquirenti almeno europei” non possono trovare eccezioni. Affinché il percorso venga improntato a efficienza e trasparenza, l’economista ritiene essenziale ricostituire il Comitato per le privatizzazioni alla diretta dipendenza della “regìa politica” di Palazzo Chigi, e investire l’Autorità Antitrust e la Corte dei Conti di un forte ruolo di vigilanza nella fase successiva alle alienazioni. Riguardo al metodo per mettere sul mercato le realtà produttive, lo studioso boccia la trattativa diretta e l’individuazione di un acquirente preferenziale, “come avvenuto nelle vicende Alitalia e Telecom che tuttora ne scontano gli effetti nocivi”. La strategia di vendita, rimarca, deve essere totale, realizzata in un arco di tempo ragionevole, e finalizzata alla completa fuoriuscita di governo e amministrazioni locali dall’azionariato: a partire da ENI ed ENEL. “Ed è necessario garantire la piena neutralità nella gestione delle reti, come nel caso delle ferrovie”.

I PERPLESSI SULLE PRIVATIZZAZIONI

Molto più diffidente verso la validità dell’alienazione di compagnie pubbliche è Massimo Mucchetti, parlamentare del Partito democratico e presidente della Commissione Attività produttive di Palazzo Madama. Condividendo l’obiettivo di trasferire a Palazzo Chigi il controllo del Comitato per le privatizzazioni “per ampliarne le competenza alla concorrenza e alle strategie industriali”, l’ex editorialista del Corriere della Sera ricorda che “le privatizzazioni vere, con tante risorse coinvolte, l’Italia le ha già fatte. E perciò non produrranno una riduzione strutturale del debito pubblico”. Riguardo alla cessioni di specifici asset industriali, il senatore democrat respinge la proposta di mettere ulteriormente in vendita ENI “poiché sarebbe un’operazione in perdita”, non vuole esprimersi su Poste italiane, è favorevole alla valorizzazione di Fincantieri in Borsa ma mette in guardia dal rischio di “una perdita di competenze nazionali a favore dei gruppi esteri”.

Ai suoi occhi appare singolare che nessuno nel nostroPpaese abbia mai analizzato l’esito e gli effetti delle vendite. Prima fra tutti la vicenda Telecom, nelle mutevoli e fallimentari soluzioni delineate per la governance aziendale a partire dal nocciolo duro di tipo francese individuato nel 1997 da Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi: “E che sfociò nel controllo della compagnia con il 6,7 per cento del capitale”. Non ostile in via pregiudiziale alle privatizzazioni, il politico-giornalista invita a “un sano scetticismo” per valutare i singoli casi e verificare “la qualità e le caratteristiche dei nuovi padroni”. Pensa ai Cantieri Ferretti, finiti in mano a una conglomerata cinese controllata da un esponente del Partito comunista, “nuovo mandarino di un impero selezionato con criteri meritocratici”, privo di competenze nella cantieristica da diporto. Operazione che, precisa, si è tradotta in una vera e propria nazionalizzazione.

Poi rileva che nel mondo l’industria energetica è al 70-80 per cento di proprietà statale. E ricorda che in Italia tutti i gioielli economici sono stati comprati da gruppi stranieri, “mentre le imprese nazionali hanno investito in monopoli pubblici privatizzati”. Fenomeno, conclude Mucchetti, in aperta contraddizione con l’immagine rampante dei “condottieri di ventura” del capitalismo privato che negli anni Ottanta andavano a conquistare società in Europa: Silvio Berlusconi, Raul Gardini, Carlo De Benedetti. “Tutti sconfitti”.

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