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Perché i liberali non possono rassegnarsi a Forconi, Grillo e peronisti vari (e avariati)

Sono passati poco più di 33 anni dalla celebre Marcia dei Quarantamila e in un momento di crescente radicalizzazione della protesta per gli effetti dell’austerity sulle famiglie Italiane, forse un ripasso di storia può essere utile.

LA MARCIA DEI 40 MILA
La Marcia dei Quarantamila dell’Ottobre 1980 fu la manifestazione dei quadri Fiat che, esasperati dal continuo violento picchettaggio di fronte agli ingressi degli stabilimenti messo in atto da PCI e sindacati, sfilarono silenziosi per le vie di Torino per testimoniare che la protesta sindacale per la Cassa Integrazione messa in atto dal Lingotto non giustificava la violazione della libertà individuale di decidere se aderire o meno agli scioperi e soprattutto non doveva mettere a repentaglio la continuità aziendale del gruppo torinese, costringendo, in seguito al clamore mediatico della protesta, i sindacati al compromesso con l’azienda.

LA RIVOLTA DEI FORCONI
La cronaca di questi giorni ricorda, in alcuni elementi, quella della fine degli anni 70. Il movimento dei forconi, nelle parole per il momento più che nelle azioni, ricorda le proteste di piazza di quegli anni e i deliri pseudo insurrezionalisti di Grillo richiamano quelli dei cattivi maestri degli anni di piombo. Le facili soluzioni proposte da chi, cavalcando, spesso ispirato da ambizioni politiche personali, il comprensibile disagio sociale derivato dalla crisi, propone paradigmi all’insegna dell’uscita del nostro Paese dall’Eurozona prima e dall’Unione Europea poi, non sono poi così diverse da chi negli anni 70 agitava il libretto rosso di Mao proponendo il rifiuto del modello capitalista (salvo poi accomodarsi nella stanza dei bottoni appena possibile dimenticando ogni impeto iconoclasta).

GRAVE SITUAZIONE
Certo oggi la situazione è più grave oggi che allora quando la crisi Fiat, portato delle crisi petrolifere e del conseguente rallentamento dell’economia globale, toccava principalmente la classe operaia lasciando indenne la piccola e media borghesia mentre la depressione degli ultimi anni è andata a modificare strutturalmente il tessuto sociale italiano determinando la progressiva proletarizzazione ed impoverimento del ceto medio. Ne consegue che il terreno di cultura di chi, oggi come negli anni 70, propone soluzioni anti sistema come facile leva per conseguire consenso ed ottenere potere è certamente più ampio adesso che ai tempi della Marcia dei Quarantamila.

MINACCE DIVERSE
L’altra differenza tra oggi e gli anni 70 è il venire meno della minaccia comunista. Se negli anni 70 il pericolo di un allontanamento dell’Italia dal blocco Nato per entrare sotto l’influenza liberticida dell’URSS era sufficiente per mobilitare coscienze e voti, oggi questa leva non esiste più.
In questo senso il compito di chi si contrappone alla radicalizzazione della protesta all’insegna dell’antagonismo è più complesso rispetto a 33 anni fa. Chi è convinto che la via di uscita dalla crisi non passi dal ritorno alla sovranità monetaria (che vuole dire creare deficit stampando moneta per poi lasciare alle generazioni successive la patata bollente), dal reddito di cittadinanza, dalle svalutazioni competitive e dalla difesa a tutti i costi delle imprese, private e pubbliche, decotte ma tramite un rinnovamento delle istituzioni e della classe dirigente all’insegna del merito e del mercato, deve trovare fattori di catalizzazione del consenso senza potere fare appello a obsolete appartenenze ideologiche.

CONTINUA LA POLARIZZAZIONE
È questo che ancora oggi manca nella politica Italiana, ancora inquinata dalla polarizzazione tra anti e pro Berlusconisti e priva di una capacità di relazionarsi con i veri problemi del Paese senza cadere in una facile demagogia. La soluzione non passa né da nuovi movimenti politici presentati a platee comodamente adagiate su vellutate poltrone, il cui impeto riformatore ricorda più le chiacchiere tra il primo ed il secondo atto nel foyer della Scala che le riunioni clandestine dei primi liberali durante le dittature del XIX secolo, né tanto meno nella nuova Forza Italia, caratterizzata da un vago sapore dinastico tra i Club Forza Silvio e le invocate discese in campo di Marina o Barbara Berlusconi (o magari, un domani, Francesca Pascale, novella Evita Peron).

UNA FORZA RIFORMATRICE
Serve una forza riformatrice liberale di piazza, di protesta e proposta, che sappia dialogare con il popolo delle partire IVA e dei piccoli e medi imprenditori devastati dalla crisi ma anche con chi classe media non è più non tanto per colpa della crisi ma di 20 anni di pessima politica, e che, nel contempo, abbia la credibilità per confrontarsi, negoziare e, se necessario, battere i pugni sul tavolo nella stanze del potere di Bruxelles, Berlino e Strasburgo. Qualcuno che sappia mobilitare chi combatte la crisi nelle proprie aziende e non bloccando stazioni ferroviarie, metropoli e lavori pubblici, chi alla decrescita felice preferisce un percorso di crescita economica e sociale, unico e vero ascensore sociale, e che invece di invocare salvacondotti per un leader al tramonto o emozionarsi per i Vaffa proclamati da un miliardario ex comico condannato per omicidio colposo preferisce alzare la voce per fare sì che i frutti dei propri quotidiani sforzi non vadano dispersi nella tutela delle rendite di posizione di chi sull’inefficienza del sistema basa i propri privilegi.

Costruire questa forza è la responsabilità di chi non si rassegna ad un’Italia in mano a forconi, grillini e peronisti. Perché la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa e vedere il ritorno agli anni 70 è un lusso che non possiamo permetterci.

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