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Ecco perché io, giornalista alla Uilm e senza tessera del Pd, oggi voterò Renzi

Questa mattina sarò in fila per votare alle primarie del Pd e, tra i tre candidati alla segreteria del partito, sceglierò Matteo Renzi.

Di lui mi ha colpito la determinazione a battersi contro quello che aveva “cristallizzato” il sistema politico negli ultimi vent’anni. Questo arco temporale corrisponde proprio al tempo in cui chi scrive si è dedicato esclusivamente all’impegno professionale: il lavoro nel sindacato, la Uilm-Uil, come giornalista; la scrittura di un paio di libri; l’insegnamento universitario.

Matteo Renzi ha avuto la perseveranza di andare avanti quando tutti lo sconsigliavano e di affermare, in quello che è un grande partito, una rottura rispetto a usi e consuetudini di chi lo aveva governato finora.

E’ questa percezione che da non iscritto mi porterà davanti ad un seggio romano, nella fila dei “fuorisede”. Sono consapevole che il sindaco di Firenze a molti non è simpatico con quell’aria da “primo della classe”. Però, a mio giudizio, ha alcune doti che sono fondamentali per comprendere il tempo che avanza: è curioso, schietto, veloce. Si vede che ha seguito da vicino la prima campagna elettorale di Barack Obama, quando nessuno era pronto a scommettere sull’elezione di un senatore di colore e per giunta con quel nome.

Deve essere in quella importante esperienza che ha compreso come un partito può tornare a guidare il Paese dopo anni di astinenza: strutturato, ma allo stesso tempo leggero; potendo contare su un minimo di finanziamento pubblico, ma soprattutto su fondi privati raccolti anche con l’ausilio della Rete; riuscendo a coinvolgere parti della società che s’erano contraddistinte col voto di protesta, o con l’astensionismo. Ma Renzi ha precisato più volte che per vincere il Pd ha bisogno del voto di quanti hanno votato per l’altra parte. Vero, semplice e logico.

Nelle tante storie che circolano sull’infanzia del sindaco di Firenze c’è quella relativa al rapporto col papà, impegnato politicamente nella sinistra democristiana della rossa Toscana: pare che Renzi junior cercasse sui giornali, o ascoltasse dai telegiornali, ogni dichiarazione del “basista” Ciriaco De Mita per riferirla al padre. Se si legge nella biografia politica di Enrico Letta, si trova che la tensione all’impegno politico sia derivata dall’esperienza umana e politica di Aldo Moro.

Il probabile segretario del Pd e l’attuale premier, uno nato nella metà degli anni Settanta e l’altro in quella degli anni Sessanta, dovranno e sapranno convivere nel tempo che viene se riusciranno al applicare una massima morotea: ”Scomporre per ricomporre”. Scomporre il quadro politico per ricomporlo in una prospettiva sociale accettabile e in una dimensione istituzionale diversa. E’ questo che Renzi si è impegnato a fare, assicurando che, divenendo leader di partito, vincolerà il governo a fare altrettanto.

C’è bisogno di una legge elettorale che sia decisa al più presto, di tipo maggioritario e che garantisca la governabilità sull’esempio di quella in vigore per i comuni. C’è la necessità di una legge di programmazione economico-finanziaria che riduca il cuneo fiscale sul lavoro e che rilanci gli investimenti produttivi con risorse certe. C’è l’improrogabile esigenza di investire in sapere e conoscenza prediligendo il merito e la competenza delle persone. C’è l’urgenza di una riforma della giustizia civile ed amministrativa basata su celerità e snellezza affinché ritardi e adempimenti burocratici non scoraggino più gli investitori esteri e quelli nazionali. Ci vuole un’azione combinata di Italia, Francia e Spagna nei confronti della Germania in ambito Ue per favorire politiche espansive ed allentare la morsa dei vincoli comunitari.

Su questi punti Matteo Renzi potrà fare molto, se eletto, per sollecitare l’azione del governo guidato da Enrico Letta. Ma all’interno dell’equilibrio di partito potrà fare ancora di più. Ovvero spingere il nocciolo storico della sinistra, che finora è stata l’azionista di maggioranza del Pd, a fare i conti con una mescolanza in cui non dovrebbe avere più un ruolo egemone, se non sulla forza delle idee.

Gianni Cuperlo e Pippo Civati sono due politici preparati e per bene: il primo, ultimo segretario della Federazione giovanile comunista; il secondo aperto alla convivenza coi comunisti di Sel e della sinistra in genere. Per la prima volta nella storia del Pd chi proviene dal Partito comunista italiano, o è affine a questa tradizione, appare destinato a perdere le consultazioni primarie. Invece, Renzi si presenta come un giovane leader riformista, di stampo europeo come lo sono stati, all’inizio della loro carriera nazionale, gli americani Bill Clinton e Barack Obama; gli inglesi Tony Blair, David e Ed Miliband. E il primo cittadino fiorentino non rifugge da collocare il Pd, come lo sono i democratici americani e i laburisti inglesi, nell’alveo dell’Internazionale socialista e del Partito socialista europeo, nei modi e con le eccezioni che finora hanno regolato tali adesioni.

Tra le battute più efficaci del sindaco di Firenze c’è quella che invita a non votarlo chi pensa che attuerà quello che dice la Cgil. Talmente penetrante che il leader della Fiom, Maurizio Landini, gli ha replicato ruvidamente da Bologna a stretto giro di posta citandolo come “la porcata di un uomo solo al comando”. Ma è proprio per questa avversione a certe forme di massimalismo sindacale che Renzi è apprezzato da molteplici ambienti del riformismo laico e socialista.

Occorre tener presente che destra, sinistra e centro per Renzi ormai sono valori dello spirito. Per lui conta chi si fa coinvolgere dai cambiamenti in atto, comprendendoli, governandoli, gestendoli. Oggi perde chi parla di cambiamento senza realizzarlo, perché la svolta epocale rischia di essere più veloce di ogni buona enunciazione che viene dal Palazzo. E’ questa la grande distinzione tra chi salirà sul carro e chi potrà, nel migliore dei casi, provare a spingerlo.

Un punto, però, in cui il sindaco pare un po’ più debole è la visione della politica industriale, forse perché gli slogan in questo settore non aiutano a capire la sua visione integrale al riguardo. Qui il possibile leader del Pd può e deve far meglio. Il Paese si avvia trascorrere festività amare. L’Italia uscirà dalla recessione, ma crescerà meno degli altri “partner” europei. L’industria fatica, il manifatturiero arranca, la disoccupazione incombe. Dal 2000 ad oggi le imprese manifatturiere non hanno registrato incrementi di efficienza produttiva. Dal 2007 questa condizione è peggiorata per via della crisi globale. Ci vorrebbe una manovra da shock per l’industria italiana per determinare le ricadute positive sull’intera economia nazionale.

La politica industriale si presenta con le parole, ma si realizza con l’attuazione di progetti organici e sistematici al fine di assicurare innovazioni di processo e di prodotto, maggiore competitività sul mercato interno e quello estero, tutela e crescita degli addetti, tutela e crescita dei fatturati. Al momento il Paese è fuori da questa prospettiva e rischia di avvitarsi su se stesso. Esiste la consapevolezza che tra soli 40 anni l’industria creerà ancora centinaia di milioni di posti di lavoro.

La battaglia è fare in modo che il nostro Paese sia ancora della partita. Le parole di Renzi predispongono a questa possibilità. Dei contenuti progettuali e della loro verifica attuativa sapremo tra breve. Per il momento bisogna fidarsi ed il voto di domani è un atto di fiducia per muovere qualcosa in un Paese che stenta a farlo. “Fai quel che devi, accada quel che può” predicava Pietro Nenni.

Dopo il voto domenicale ritornerò al lavoro quotidiano, come succederà a molti altri che oggi si sono recati alle urne, tenendo presente che politica è anche fare bene proprio le cose di ogni giorno. Sono sicuro, però, che almeno avrò la soddisfazione di aver fatto quel che si doveva, confidando che è giunto il tempo che qualcosa di meglio succeda.

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