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Come e perché Al Qaeda avanza in Iraq

Fallujah – la città delle moschee – è il principale centro urbano della provincia di Anvar. Assieme a Ramadi, capitale della provincia, è situata una sessantina di km a Ovest di Baghdad. La provincia, quasi completamente sunnita, confina con l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria. Fallujah possiede un alto valore simbolico per i sunniti iracheni e anche per lo “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIS), legato ad al-Qaeda e impegnato duramente, con varie migliaia di combattenti, fra cui molti stranieri, nella rivolta siriana. Fallujah e Ramadi sono stati i centri della rivolta sunnita anti-americana e il teatro di due delle più sanguinose battaglie combattute dalla coalizione contro gli insorti iracheni.

IL RISVEGLIO SUNNITA
Furono anche protagoniste del “Risveglio Sunnita”, in cui le milizie tribali dell’Anvar – i cosiddetti “Figli dell’Iraq” – combatterono i qaedisti. Stimolata dal generale Petraeus e dal suo consigliere per l’antiterrorismo, Kilcunnen, la nuova strategia USA ne stimolò la formazione, approfittando dell’odio generato dalla loro brutalità e anche dall’aver violato la dignità delle donne irachena. Le milizie tribali sunnite combatterono dal 2006 a fianco delle truppe USA. Petraeus e Kilcunnen erano convinti dell’impossibilità di schiacciare la rivolta e di pacificare un territorio, rimasto tribale e clanico come l’Iraq, senza l’appoggio delle tribù locali. Queste ultime non hanno infatti un’“exit strategy“ e, soprattutto, non sono condizionate dalle limitazioni all’uso di una violenza superiore a quella degli insorti, che è necessaria ma che contrasta con i valori e i principi propri della cultura e della civiltà occidentali.

Mappa etnica dell’Iraq (clicca sull’immagine per ingrandire)
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CAOS A FALLUJAH
Dopo l’occupazione dell’Iraq, Fallujah era rimasta sufficientemente calma. Un Consiglio municipale, retto da esponenti del vecchio regime, manteneva la sicurezza pubblica. La situazione mutò bruscamente nel marzo-aprile 2004, quando quattro contractors americani furono uccisi e i loro corpi bruciati e appesi a un ponte della città sul fiume Eufrate. La reazione americana fu eccessiva e brutale, tanto da provocare l’alleanza fra i qaedisti e i sunniti. Quando gli americani si ritirarono dalla città, l’insurrezione si diffuse a tutte le zone sunnite. Nel novembre 2004 ebbe inizio la seconda battaglia di Fallujah, che si concluse dopo due mesi e centinaia di perdite americane, britanniche e fra le truppe sciite irachene, che per la prima volta parteciparono ai combattimenti contro gli insorti. Migliaia furono i morti fra i 300.000 abitanti della città. Quasi il 40% degli edifici di quella che era stata una delle “perle” di Saddam Hussein fu distrutto.

L’EMARGINAZIONE DAL POTERE
Dopo il completo ritiro americano dall’Iraq nel 2011, il controllo della situazione passò nelle mani del governo iracheno, guidato dallo sciita Nouri al-Maliki. Anziché, promuovere una politica di riconciliazione nazionale, che non mortificasse i sunniti, egli li emarginò dal potere, mise in carcere molti loro esponenti e li penalizzò nella distribuzione della rendita petrolifera. Si posero così le condizioni non solo per ricorrenti proteste, ma anche per una nuova rivolta. La “terza battaglia di Fallujah” ne costituisce l’episodio saliente. Al-Maliki, dopo essersi garantito – nella sua visita a Washington del novembre scorso – l’aiuto americano nella lotta contro i qaedisti, come definisce tutti i suoi oppositori, cercò d’imporre con la forza il controllo della situazione nelle aree sunnite, in particolare nella provincia di Anvar. Tentò invano di sciogliere talune milizie tribali, arrestò esponenti politici e fece attaccare un campo di dimostranti a Ramadi. Essi chiedevano la liberazione dei prigionieri politici, una più equa distribuzione dei proventi del petrolio e il pagamento degli stipendi ai “Figli dell’Iraq”, cioè alle formazioni paramilitari sunnite che continuano ad affiancare esercito e polizia nel mantenimento dell’ordine pubblico. La situazione nell’intero Iraq si era nel frattempo deteriorata. Nel 2012, il numero di morti, fra militari e civili, ha raggiunto 8.500 persone, quante quelle uccise nel 2008.

UNA DURA REPRESSIONE
La dura repressione voluta da al-Maliki provocò la reazione delle tribù sunnite dell’intero Anvar. Temendo di perdere il controllo della situazione, egli accettò di ritirare la polizia e le truppe governative, passando i poteri alle tribù. Queste ultime si erano però divise. Talune erano già in contatto con l’ISIS, che appoggiavano nella sua azione in Siria, con reclute e aiuti militari e finanziari, provenienti soprattutto dall’Arabia Saudita. Altre erano rimaste filo-governative o, almeno, neutrali, anche perché temevano che i qaedisti si vendicassero per l’appoggio da loro dato agli USA dal 2006 al 2011. Si determinò così un vuoto di potere che permise all’ISIS di occupare con qualche centinaia di combattenti le due città, di trincerarsi in esse e di respingere i primi attacchi delle forze governative, che hanno comunque circondato le due città e le stanno bombardando con l’artiglieria e gli aerei. Intanto, s’intensificavano gli attentati nelle zone sciite in tutto l’Iraq.

SCONTRO SENZA QUARTIERE
Cresceva in al-Maliki il timore di quanto aveva in realtà egli stesso provocato e di doversi ritirare definitivamente dall’Anvar, nonostante la superiorità numerica e la potenza di fuoco delle sue forze. Il premier iracheno si è perciò appellato alle tribù sunnite, cercando di ammorbidirle con generosi trasferimenti di denaro. Esse gli imporranno un prezzo molto salato, anche perché l’Arabia Saudita certamente soffia sul fuoco, avendo ogni interesse a indebolire il governo filo-iraniano di Baghdad. Da lotta fra le fazioni irachene e i combattimenti nell’Anvar rischiano di spiralizzarsi in uno scontro senza quartiere fra Sunniti e Sciiti e creare un nuovo teatro di conflitto, altre quelli siriano e libanese fra l’Arabia Saudita e l’Iran. Quest’ultimo ha dichiarato il proprio appoggio ad al-Maliki, promettendogli l’invio di armi e di forze speciali. Gli USA sono indecisi. Hanno interessi contrastanti. Vorrebbero la stabilità dell’Iraq e del governo al-Maliki. Non possono però dare l’impressione di appoggiare gli Sciiti (e implicitamente anche l’Iran) più di quel tanto. Provocherebbero una furiosa reazione dei loro alleati del Golfo, già fortemente irritati del riavvicinamento fra gli USA e l’Iran per il nucleare. Il Segretario di Stato, John Kerry, ha promesso l’invio a Baghdad di droni e di missili Hellfire, in aggiunta a quelli già concessi a novembre da Obama a al-Maliki “per combattere al-Qaeda”.

LA STRATEGIA JIHADISTA
È probabile che a Fallujah e a Ramadi le truppe governative avranno la meglio. L’ISIS, tanto impegnato in Siria, non potrà inviare massicci rinforzi. Continua poi a essere penalizzato dalla “maledizione” che aveva colpito in Iraq il suo predecessore (al-Qaeda in Mesopotamia, trasformatosi poi in Stato Islamico dell’Iraq). Tale “maledizione” sta manifestandosi anche in Siria. Consiste nel suscitare l’opposizione delle forze locali, con la sua ferocia e con la separazione dalla società. In altri luoghi, come in Afghanistan, in Caucaso e nei Balcani, tale fenomeno non si è verificato. In tali aree la direzione strategica dei jihadisti ha perseguito un sistematico programma di matrimoni dei propri aderenti con donne appartenenti alle varie tribù e clan locali, in modo da ottenerne il sostegno o, quantomeno, la neutralità.

L’INSTABILITÀ CONTINUA
Dopo la riconquista delle città sunnite, in Iraq la situazione rimarrà comunque instabile. L’esito delle elezioni di aprile non cambierà la situazione. Anzi, potrebbe aumentare tensioni e violenze. La durata dei combattimenti nell’Anvar dipenderà dall’atteggiamento delle tribù, cioè da quante appoggeranno l’ISIS e da quante collaboreranno con le forze governative. Il governo di Baghdad non può comunque permettersi di lasciare una base dell’ISIS a un centinaio di km ad ovest della capitale. Impiegherà tutte le sue forze per schiacciare i qaedisti e i loro sostenitori. Una certa stabilità in Iraq potrà essere raggiunta solo se il governo di Baghdad terrà in debito conto le rivendicazioni dei sunniti e non cederà alla volontà di vendetta degli estremisti sciiti. Non è impossibile che lo faccia, soprattutto se Arabia Saudita e Iran saranno convinti a “non gettare benzina sul fuoco”. Il dialogo fra le varie componenti della classe dirigente irachena non si è interrotto. Lo dimostra l’accordo – non so se tacito o formalizzato – intercorso fra il governo e l’opposizione sunnita, perché quest’ultima non attacchi le installazioni petrolifere, beninteso, contro il pagamento di adeguate somme di denaro alle varie tribù.

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