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Un pensiero su Michael Jordan (e su una foto), nel giorno che si ritirò dal basket

Era il 13 gennaio del 1999, quando un velo di malinconia calò sullo sport più bello del mondo. Michael Jeffrey Jordan annunciava il suo, secondo, ritiro. L’aveva già fatto qualche anno prima, per poi ritornare dopo 17 mesi di esilio volontario con un annuncio programmatico «I’m back»: solo tre parole, che avevano squarciato la mattinata del 18 marzo 1995, ore 11:40 – con l’ESPN che aveva interrotto tutti i programmi per annunciare che la domenica successiva alla Market Square Arena di Indianapolis, ci sarebbe stato in campo anche His Airness contro i Pacers.

Dopo quello del 1999 ci fu un altro ritorno, da giocatore/proprietario degli Washington Wizards, un All Star Game (il quattordicesimo) a Philadelphia, coronamento di una stagione da 22,9 di media a 38 anni d’età, dove riuscì ad eclissare l’enorme stella – non poco indispettita nell’occasione – del padrone di casa Kobe Bryant.

Non ce ne saranno altri, forse – sì, vero: perché c’è quella vicenda del febbraio scorso, con la sfida al campo d’allenamento di Charlotte il giorno delle cinquanta candeline di president MJ (già, nel frattempo è diventato proprietario di un’altra squadra Nba, i Bobcats), contro quel “suo” giocatore, Michael Kidd-Gilchrist esplosiva guardia classe 1993. 1vs1: dice Gilchrist di “non averla presa mai”, dando ancora più spago a quella storia – e a quel fascicolo sul tavolo del fido preparatore atletico Tim Grover che ha su scritto “How to put Michael back on the court at fifty”, ossia come rimettere Michael in campo a 50 anni.

Fantasia, ma con Jordan non sarebbe la prima volta che ci si stupisce.

Tra le centinaia di aneddoti legati al suo letteralmente straordinario personaggio, mi va di ricordarne uno legato non all’anniversario odierno, ma al suo primo ritiro. E, soprattutto, legato a una foto.

Era il 6 ottobre del 1993 – Michael Kidd-Gilchrist era nato appena dieci giorni prima – quando Air Mike comunicò al mondo la decisione, straziante per certi versi, di lasciare la pallacanestro: «Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia». Una famiglia spezzata dalla morte del padre, James Jordan, ucciso nel luglio del 1993, poco dopo aver visto il figlio Mike vincere il suo terzo anello.

Circostanze mai del tutto chiarite quelle della morte di James Jordan: quello che si sa, è che stava tornando dal funerale di un amico, quando per la stanchezza accostò in una piazzola della statale. Abbassò il sedile della Lexus, che il figlio gli aveva regalato, per riposarsi: venne svegliato da quelli che furono indicati come teppistelli, pistola in mano, rapina, qualcosa va storto, partono dei colpi che lasciano senza vita il corpo del padre del campione. I due rapinatori partono con l’auto, ma vengono incastrati da un paio di telefonate fatte proprio con il telefono della vittima.

La storia va avanti, e per fortuna. MJ passa dal baseball nel 1994, con la squadra di Minor League dei Chicago White Sox, i Birmingham Barons – «Voglio dimostrare di poter primeggiare anche in un’altra disciplina» era la dichiarazione che aveva accompagnato la decisione. Ma i risultati sono modesti.

Torna l’anno successivo: con quell'”I’m back” che alza ancora l’asticella dell’idolatria sportiva. Gioca una buona stagione, ma non vince il titolo. Sconfitto dagli Orlando Magic di “Diesel” Shaq in semifinale di Conference – Orlando poi batterà Indiana e perderà le Finals contro Houston. Fino a quelle partite in Florida, giocava con il 45 MJ, il suo preferito, ma poi per far capire a Nick Anderson che lo aveva stuzzicato – «non è più il superman col 23» il commento della guardia dei Magic – aveva rimesso il suo numero di sempre (pagando una multa ogni gara, per aver cambiato maglia a stagione in corso) e senza lasciarlo mai più.

Poi c’è il 1996. L’anno della foto. I Chicago Bulls sono una squadra da sogno, incubi per gli avversari: 72 vittorie in regular season – le partite sono 82. Devastante stagione con una media punti sopra i trenta per Jordan. Vincono tutto: Jordan fa three-peat (MVP dell’All Star Game, MVP della stagione regolare e MVP delle finali) ed è miglior marcatore, Kerr in testa ai tiri da tre, Rodman miglior rimbalzista, Kukoc sesto uomo, Jerry Krause dirigente dell’anno, Phil Jackson allenatore dell’anno.

In finale c’erano i Seattle Supersonics di Payton e Kemp: ma niente da fare, e i Sonics erano forti davvero.

Dunque, della foto si diceva: siamo a gara 6 – dopo che i Sonics erano riusciti a strappare alla serie due successi casalinghi – si torna allo United Center, dove i Bulls con le tre vittorie nelle prime partite delle Finals avevano fatto segnare quota 89, su cento giocate.

Era il 16 giugno: Jordan non giocò bene, o meglio, non al suo livello. 22 punti con 5 su 19 dal campo non sono i numeri di Air Mike. Ma è la data che conta e che costruisce l’indelebile sfondo alla foto. La terza domenica di giugno, negli Stati Uniti si celebra la Festa del papà. Non erano passati nemmeno tre anni da quel luglio del ’93, quando papà James fu ucciso. E Jordan gioca tutta la gara con l’unico pensiero in testa: vincere per lui.

87-75 è il finale.

Alla sirena tutto lo stadio è sul parquet: si abbracciano i campioni, si cerca “Il” campione. Ma lui non c’è. È corso nello spogliatoio. La tensione scaricata in una delle immagini più straordinarie dello sport di tutti i tempi. Michale Jeffrey Jordan, steso sul pavimento degli spogliatoi dello stadio di casa, piange. La faccia tra le mani, il pallone abbracciato, come l’unico amico fraterno, per consolarsi. His Airness singhiozza come un bambino. Sono tutti intorno a lui, chi passa una asciugamano, chi respinge i fotografi: tutti spiazzati, il distillato del rispetto, nessuno prova a toccarlo. Quel pavimento è così personale da far dimenticare le telecamere e i milioni di sguardi.

Non torna con i piedi sulla Terra come molti hanno commentato; non smette di volare, Air vola ancora più in alto: quel campione talmente forte da essere disumano, banale dirlo, ma tornato umano per una notte. Ed è questo – anche questo – che lo ha reso indimenticabile, e che ci porta qui a parlarne e a sentirne ancora la mancanza, a sperare che quel fascicolo sul tavolo di Grover possa contenere una ricetta romantica, che ci faccia dimenticare per un po’ quel 13 gennaio di quindici anni fa, come successe già nel 2001.

Ha lasciato a trentanni, ha ripreso poi fino a quaranta: perché non può farlo per i cinquanta? Come è scritto fuori dello stadio di Chicago, lo United Center, sotto alla grande statua di Jordan: “The best there ever was, the best there ever will be”.

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