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I ritardi sulle armi chimiche siriane

Delle 1300 tonnellate di agenti chimici da armamento in possesso dell’esercito siriano, ne sarebbe stato consegnato meno del 5 per cento all’Opcw – l’Organizzazione mondiale per la proibizione delle armi chimiche che si sta occupando della dismissione nell’operazione congiunta con l’Onu.

Era stata Reuters a dare la notizie ieri, raccontando di indiscrezioni fornite da fonti anonime, vicine all’Organizzazione. Questione di cui le autorità internazionali sembrerebbero essere completamente a conoscenza: si parla di un resoconto del Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e di una telefonato in cui il Segretario di Stato americano John Kerry aveva contattato il suo omologo russo Lavrov, per chiedere di intercedere con Assad e cercare un’accelerazione delle operazioni.

Sempre ieri si è chiuso il primo round dei negoziati di pace “Ginevra 2”: la non-notizia è che le parti si sono lasciate con un nulla di fatto, ma d’altronde – come il capo dei negoziatori Lakhdar Brahimi ha ricordato – era da aspettarsi un risultato del genere, almeno in questa prima fase.

Sembra inutile sottolineare che le deadline previste dall’accordo di metà settembre sullo smantellamento dell’arsenale, che fissavano la chiusura della “fase uno” – le sostanze più pericolose, quelle di primaria priorità – entro il 31 gennaio e per la “fase due” il 5 febbraio, non saranno rispettate.

Allo stesso tempo, è banale pensare che i due passaggi – operazioni di smaltimento delle armi chimiche e colloqui di pace – siano strettamente collegati. Perché è vero che le operazioni hanno subito ritardi a causa dell’intensificarsi dei combattimenti in corso, così come è vero – gli stessi membri dell’Opcw se ne erano lamentati – che ci sono stati rallentamenti burocratici, anche, ma non solo, legati alla scelta della procedure tecniche da adottare. (Per altro in questo, noi italiani non abbiamo fatto mancare il nostro contributo, mettendo in piedi quella pantomima ottusamente nimby, fatta di proteste e discussioni nelle varie realtà locali che si erano via via rifiutate di concedere l’uso dei propri porti come scalo di trasferimento dei container con le sostanze siriane, e che è finita per preoccupare l’opinione pubblica internazionale, fino alle colonne del Wall Street Journal). Ultima delle vicissitudini di questo tipo, il ritardo nella partenza della “Cape Ray”, l’imbarcazione americana che si dovrà occupare dello smaltimento dei composti attraverso il metodo d’idrolisi (denominato Fdhs) – la nave è salpata soltanto un paio di giorni fa per Gioia Tauro, il porto che alla fine è stato designato per il trasbordo dei prodotti (non senza ulteriori polemiche), ritardando la partenza a causa di una problema ai motori.

Ma queste circostanze non devono distogliere l’attenzione dal fatto che adesso il piano di Assad, potrebbe essere quello di utilizzare la dismissione come ricatto diplomatico. Sebbene infatti all’inizio si era dimostrato particolarmente aperto ad avviare le procedure di distruzione del suo arsenale, con il passare del tempo le attività hanno fatto registrare continui rallentamenti (attualmente siamo dalle sei alle otto settimane in ritardo rispetto al programma fissato nell’accordo) – lo stesso Ban aveva espresso le sue preoccupazioni in una discussa lettera indirizzata al Consiglio di Sicurezza Onu ad inizio dicembre scorso, nelle quale sottolineava le difficoltà nel procedere, legate ai combattimenti sì, ma anche alla scarsa disponibilità del governo locale nei confronti dei tecnici Opcw che stavano compiendo le ispezioni, denunciando addirittura buchi nei controlli, soprattutto in un sito (che secondo alcuni osservatori sarebbe stato quello di primaria importanza di al-Safira, area a sud di Aleppo).

Rallentare le operazioni è ormai l’unica leva diplomatica su cui può far affidamento il governo siriano, con le richieste di transizione del potere (dimissioni e libere elezioni), che sembrano essere diventate il punto cruciale dei colloqui e i crimini perpetrati verso i ribelli che ogni giorno si infittiscono di una nuova pagina. È di ieri la pubblicazione di un rapporto di Human Right Watch che denuncia il governo di Assad di aver «deliberatamente e illegalmente» demolito migliaia di abitazioni in aree controllate dalle opposizioni.

Il presidente starebbe controllando i ritardi con accortezza, a detta di quelle fonti interpellate da Reuters, per evitare l’incorrere nelle sanzioni previste dal non rispetto dell’accordo. A dire il vero però, proprio le norme sanzionatorie erano da subito state criticate perché sembrate troppo deboli. In teoria sarebbe infatti prevista la procedura del Capitolo VII della Carta Onu, che prevede l’imposizioni delle sanzioni (embarghi e via dicendo) o l’intervento militare; ma l’assenza di un richiamo specifico ne impedisce l’applicazione automatica, circostanza che comporterebbe che per l’applicazione di eventuali azioni punitive si ripassi nuovamente per la votazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui, la Russia, molto probabilmente potrebbe porre il veto. Condizione che per certi versi pone Assad in una posizione privilegiata, permettendogli di utilizzare un’ulteriore le proprie carte quando riprenderanno i colloqui “Ginevra 2”, con le spalle coperte.

 

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