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Vogliamo essere smoderatamente moderati

Noi affermiamo con convinzione che i cambiamenti epocali in corso rendono irrinunciabile e non rinviabile la riforma del nostro fragile assetto istituzionale. La sfida delle riforme può essere affrontata e vinta solo se da un canto si riconosce una cultura di riferimento e, dall’altro, è chiaro il nuovo contesto storico nel quale si colloca. In un mondo dove stanno cambiando molte delle categorie culturali e politiche con le quali siamo stati abituati a convivere, è ben difficile concepire un processo di riforma a prescindere da un patrimonio di principi dal quale discenda una conseguente visione della persona e della società. Noi siamo infatti convinti che, come non bastano le soluzioni economicistiche alla crisi se non sono ancorate a una visione più ampia e se non si nutrono della sedimentazione delle esperienze e dei progressi del passato, allo stesso modo non basta un’arida ingegneria istituzionale sganciata da un’idea dell’uomo e della società.

LA PIETRA ANGOLARE
In ambito istituzionale, così come in quello antropologico, non c’è contraddizione tra il guardare al futuro e il conservare il retroterra sul quale quel futuro si fonda, e non c’è neppure contrapposizione tra i principi della tradizione democratica e le sfide riformiste imposte dalla modernità. C’è una pietra angolare sulla quale tradizione e futuro trovano un fondamento comune ed è rappresentata dalla centralità della persona. Vi sono principi iscritti nel cuore dell’uomo prima che intervenga ogni codificazione e che si trovano alla base dell’idea stessa di legge fondamentale.

RISCHI SPECULARI
Il costituzionalismo, infatti, nasce nel momento in cui viene individuata una sfera di diritti che, per la loro importanza percepibile in modo istintivo da ogni uomo, deve essere sottratta al potere assoluto del sovrano, in quanto egli stesso sarà chiamato a rispettarla. Questa sfera, nel passaggio dal costituzionalismo antico a quello moderno, si modificherà a seconda delle circostanze storico-politiche nonché delle tradizioni, usi e costumi dei diversi popoli. Ma se si perde questo nesso tra le leggi naturalmente iscritte nel cuore degli uomini e il bisogno di una Costituzione gerarchicamente sovraordinata alla legislazione ordinaria, si corrono due rischi speculari: da un canto di sottoporre a revisione relativistica persino i contenuti delle Costituzioni e, dall’altro, di trasformarli in una sorta di immodificabile religione civile, inidonea a regolare pragmaticamente i rapporti fondamentali di una comunità nazionale. Se invece si ha ben chiaro il nesso esistente tra la Costituzione e la centralità dell’uomo, è più facile non aver paura di cambiare.

UNA RIFORMA IRRINUNCIABILE

Si potrà comprendere che, salvaguardando i diritti inviolabili della persona e riconoscendo il correlato valore dei corpi intermedi, non c’è nulla da temere nell’affidare la decisione alla sovranità del popolo. E si potrà anche capire come salvaguardare la centralità della persona significhi risvegliare e coltivare i principi di verità e di responsabilità; rifiutare il pensiero debole che, relativizzando la concezione dell’uomo, rafforza inevitabilmente il retroterra delle istituzioni
Noi affermiamo con convinzione che i cambiamenti epocali in corso rendono irrinunciabile e non rinviabile la riforma del nostro fragile assetto istituzionale. La sfida delle riforme può essere affrontata e vinta solo se da un canto si riconosce una cultura di riferimento e, dall’altro, è chiaro il nuovo contesto storico nel quale si colloca.

In un mondo dove stanno cambiando molte delle categorie culturali e politiche con le quali siamo stati abituati a convivere, è ben difficile concepire un processo di riforma a prescindere da un patrimonio di principi dal quale discenda una conseguente visione della persona e della società. Noi siamo infatti convinti che, come non bastano le soluzioni economicistiche alla crisi se non sono ancorate a una visione più ampia e se non si nutrono della sedimentazione delle esperienze e dei progressi del passato, allo stesso modo non basta un’arida ingegneria istituzionale sganciata da un’idea dell’uomo e della società.

NEL SEGNO DI HAVEL

In ambito istituzionale, così come in quello antropologico, non c’è contraddizione tra il guardare al futuro e il conservare il retroterra sul quale quel futuro si fonda, la pretesa giacobina di poter tutto risolvere nello Stato. Sarà allora possibile riscoprire il valore rivoluzionario, in termini persino istituzionali, del gesto banale dell’ortolano di Václav Havel che ne “Il potere dei senza potere” toglie dalla vetrina lo sbiadito cartello «proletari di tutto il mondo unitevi», al quale nessun altro negoziante crede più e di fronte al quale ormai tutti sono perfino indifferenti, ma che nessuno si azzarda a levare per adattamento alle circostanze o acquiescenza agli equilibri richiesti da asseriti interessi superiori.

Per queste ragioni riteniamo che occorra ripensare le politiche pubbliche partendo dall’idea così antica – eppure così moderna – che riconosce come primo fattore di costruzione sociale la responsabilità umana coinvolta in un ambiente. Essa genera un ideale di libertà migliore di quello fondato sulla pretesa individualistica di diritti, perché in grado di coinvolgere la dimensione più intima dell’uomo senza fermarsi alla superficiale pretesa di veder soddisfatto ogni desiderio. Anche per questo riteniamo che sia necessario identificare con chiarezza i riferimenti e i principi intorno ai quali orientare l’opera di ricostruzione, superando quella prevalente dialettica tra utopismo irresponsabile e superficiale pragmatismo che insinua facilmente un dualismo tra la dimensione sociale e quella personale dell’agire, tra pubblico e privato, tra etica pubblica ed etica privata.

RILEGGENDO LA CARITAS IN VERITATE
Noi non vogliamo moralismi privi di morale. E, per questo, non vogliamo neppure che si affermi un’etica pubblica sempre più formale dalla quale si escluda la dimensione della rettitudine, abbandonata al puro arbitrio di un individuo pensato come separato dalla società. Se si accetta laicamente l’idea dell’errore e della contraddizione, non può esserci scissione tra la persona e la sua proiezione sociale. Non crediamo sia un caso se, in particolare nelle fila della sinistra, spesso si rimpiange il tempo in cui la questione sociale rappresentava il terreno sul quale si ricomponevano differenze etico-politiche, e persino religiose, che apparivano insuperabili, fino a fare del catto-comunismo la vera ideologia italiana.

Una laica considerazione dell’enciclica Caritas in veritate di papa Benedetto xvi ci dice invece come nella società della globalizzazione il tempo del riformatore sociale sia unico: il tempo dell’accumulazione e il tempo della distribuzione non separati. Ci dice ancor di più: che senza andare alla radice, senza affermare la centralità della persona sin dalla sua origine, senza fissare il diritto alla vita come inalienabile, non può esserci solidarietà, considerazione dell’altro, anelito alla giustizia. Ci spiega, insomma, come non vi possa essere scissione tra questione antropologica, questione sociale e concezione istituzionale. Anche per esse il tempo è unico.

LA RICCHEZZA DELLA VECCHIA EUROPA

Noi, quindi, sulla scorta del pensiero di Benedetto xvi, siamo convinti che la risposta a una concezione riduttiva di Stato e di mercato deve partire da uno sguardo rinnovato verso l’uomo, la sua esperienza e le sue esigenze, i suoi desideri e bisogni strutturali; da una nuova attenzione a quelle «scintille» di bene che spingono gli uomini a mettersi insieme nella società. Siamo consape- voli che i corpi sociali, le comunità intermedie non sono allora luoghi «espropriativi» dell’individualità, così come nella concezione comunitaria propria dei totalitarismi. Sono invece realtà dove è favorita un’educazione reale alla considerazione dell’altro, alla solidarietà, all’eserci- zio della libertà nel rispetto della libertà altrui. Come ha dimostrato Alexis de Toqueville, sono i luoghi dove inizia la democrazia. Solo in questi luoghi, d’altro canto, è possibile scoprire quelli che il Nobel per l’economia Kenneth Arrow chiama i «desideri socializzanti»: quei fattori che consentono alle utilità particolari di accordarsi in forza di comuni ideali. Le società intermedie assurgono allora ad antidoto verso la deriva nichilista; un principio sociale in grado di originare un welfare comunitario, una rete fatta di famiglie, associazioni, imprese sociali, volontariato, che alimenta il senso di responsabilità civile e assieme il desiderio del dono. Siamo convinti che tutto questo capitale sociale costituisca la principale ricchezza degli Stati e, in particolare, di quelli della vecchia Europa.

NO AL WELFARE STATE
Non si tratta di astratta retorica personalista. I processi di riforma in corso negli Stati postmoderni più avanzati dimostrano come questi sistemi stiano cercando di rispondere alle mutate esigenze della società globalizzata attraverso l’attuazione di modelli di welfare comunitari, in grado di generare vere e proprie teorie innovative della forma di Stato: si pensi al rilievo che sta assumendo il dibattito sulla Big Society in Gran Bretagna (che in Italia è stato tradotto con Welfare Society dal Libro bianco sul welfare del 2009), o alla teoria della New Governance elaborata negli Stati Uniti.

Noi pensiamo che i sistemi basati sul Welfare State, oltre a non fornire incentivi all’efficienza e all’innovazione dei servizi e a non risultare più compatibili con le esigenze di bilancio dello Stato contemporaneo, sono anche inadeguati ai bisogni dei cittadini. Essi, infatti, basandosi in realtà su una conoscenza superficiale di tali esigenze, guardano al bisogno ma non alla persona che ne è portatrice, con le sue preferenze e le sue relazioni. Inoltre, contrariamente a quanto in genere ritenuto, sono anche iniqui: in un sistema che non incentiva la libera scelta e la responsabilità dell’utente, le persone povere e poco istruite sono meno in grado di usufruire adeguatamente dei servizi erogati, mentre le persone ricche e istruite trovano più facilmente il modo di superare la rigidità e l’uniformità del sistema, ottenendo comunque opportunità più corrispondenti alle loro esigenze. In altri termini, il vecchio modello di Stato, basato su una concezione dell’uomo che ne mortifica le potenzialità, spesso nasconde anche vere e proprie «trappole» nelle quali rischiano di cadere i più poveri. Noi riteniamo quindi che la trasformazione del ruolo del «privato» nella società e nei suoi rapporti con lo Stato in base al principio di sussidiarietà relazionale possa segnare il divenire dei sistemi di welfare del terzo millennio. Noi pensiamo che il punto di partenza di questa svolta sia rappresentato dall’interazione tra democrazia e sussidiarietà orizzontale.

IL VALORE DELLA SUSSIDIARIETA’

La democrazia, che significa «governo del popolo», comporta anche l’attribuzione al popolo di quote crescenti di iniziativa e di effettivo esercizio del potere. La sussidiarietà esprime perciò un valore essenziale dell’ordinamento democratico, in quanto valorizza il primato giuridico della libertà della società civile e dei soggetti della comunità nei confronti dello Stato-autorità, e distribuisce il potere secondo un criterio meritocratico, in quanto considera il grado d’intraprendenza e d’impegno dei diversi attori. Essa, per queste ragioni, può rappresentare il presupposto per un nuovo assetto dei rapporti tra potere pubblico e gruppi sociali, fondato sulla logica del merito e della relazione.

Noi leggiamo nella crisi moderna la necessità di abbandonare l’ideologia per ritornare al realismo di una visione positiva dell’uomo, dei suoi desideri originari, delle sue relazioni. L’uomo, nel suo essere sociale, non è mosso dal mero istinto di conservazione come voleva Hobbes, ma dal desiderio: da esigenze di verità, giustizia, bellezza che, se educate, possono portarlo a costruire una società solidale. È proprio ripartendo da questo presupposto che diventa possibile recuperare, dopo un’epoca di affossamento ideologico, l’eredità di un’antica tradizione di sussidiarietà che ha caratterizzato lo sviluppo della società europea. Soprattutto, diventa possibile cercare di «reinventarla» (nel senso etimologico) in una dimensione adeguata alle sfide dei tempi.

 

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