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Genealogia del Pil – Il trionfo della volontà (statale)

In mano ai regnanti moderni, l’aritmetica politica, che più tardi diverrà economia politica tout court, si rivela arma migliore del cannone per dominare i popoli e vessarli (con le imposte).

La politica di potenza degli stati europei trova negli astrusi calcoli degli economisti il lievito ideali per freddi sogni di gloria pesati sulla bilancia del commercio, che tanto più è florida tanto più conferma tali astruserie.

L’economia perciò è politica, sin dal suo sorgere. E solo un occhio ingenuo potrebbe sfogliarne i testi senza tener conto che tutti costoro, i primi economisti e anche i secondi, in un modo o nell’altro furono e sono legati al declinarsi periclitante della potenza statale e ai suoi sussidi, siano essi cattedre, consulenze o munifiche sponsorizzazioni per alti fini di ricerca.

Petty, perciò, fu solo il primo di molti e non sarà l’ultimo.

Occorse tuttavia una lunga strada, e sempre peggiori guerre, per arrivare a quello che oggi conosciamo come Pil, dovendosi aggiungere a queste guerre anche le inspiegabili (eppure commentatissime) depressioni nelle quali l’economia internazionale talvolta indulge.

Nel corso del secolo XIX si gettarono le basi dell’evoluzione contabile del prodotto nazionale. Dall’epoca di Adam Smith, che escludeva dal computo del reddito nazionale le professioni e i servizi, si passò a quella di Alfred Marshall, inglese anch’egli e matematico di formazione, che iniziò a discorrere sul finire del secolo, dell’opportunità di inserire nel calcolo del prodotto anche coloro i quali non producevano nulla che fosse smithianamente misurabile. Ossia che generasse valore aggiunto. Il cantante, per dire, o l’avvocato, che nella visione di Smith non producevano ricchezza, pur rappresentando un valore economico, ma la consumavano.

Nell’Inghilterra di Smith, infatti, erede della tradizione fisiocratica, solo l’agricoltura produceva valore, aggiungendosi a quest’ultima il lavorio dell’industria, del commercio e dei trasporti. Si era agli albori della rivoluzione industriale, d’altronde, e ceti emergenti chiedevano di essere rappresentati, persino nella contabilità.

Che la trovata di Marshall corrispondesse a una precisa visione del mondo inglese, e più tardi americana, è chiaro agli studiosi di questa materia. Basti ricordare che la definizione di prodotto netto elaborato dalla Russia sovietica fosse assai più simile a quella di Smith, che di Marx sulla questione era stato grande ispiratore, che non a quella di Keynes. Così come è chiaro che l’impero inglese, facendosi vieppiù potente, necessitasse di rappresentare la sua volontà di potenza anche nell’arido campo della statistica economica.

E quale miglior modo se non aggiungendo al calcolo del reddit0 anche i servizi? Gonfiandosi il reddito si mostrano i muscoli, né più né meno di come facciano certe bestie gonfiando il petto.

Ecco che l’ombra del Pil, l’indice che tutto comprende, segna il definitivo affermarsi del trionfo della volontà degli stati.

Riducendo tutto a contabilità, lo Stato allarga insieme la sua volontà di controllo e la base imponibile. Che poi significa assegnarsi d’imperio il diritto a decidere chi debba guadagnare e in che quantità il soldi esatti dalle tasse.

Ma questo trionfo della volontà statale, che verrà chiamato pudicamente “politica redistributiva del reddito” vedrà la sua epifania solo nell’America di Roosvelt per europeizzarsi, ovviamente, tramite l’Inghilterra nel secondo dopoguerra grazie al decisivo influsso di Keynes.

Il New Deal, ha scritto qualcuno, fu la variante americana di quello che i fascismi fecero in Europa: spesa pubblica a sostegno del reddito, banche sotto tutela statale, protezionismi e dazi. Peraltro con meno efficacia economica di quanto i fascismi europei avevano ottenuto, se si confrontano – per dire – i dati macroeconomici americani con quelli nazisti.

Ma fu sotto il New Deal che l’intervento dello Stato nell’economia fu finalmente digerito e assimilato. Ne abbiamo visto tanti esempi, nel corso del nostro viaggio, e abbiamo anche scoperto come certe pratiche nate in quel periodo siano ancora assolutamente attuali.

Ebbene: il Pil, anche se pochi lo sanno o lo ricordano, completa l’arsenale americano messo in campo dal governo per sconfiggere la depressione degli anni ’30. Diede un calcio di incoraggiamento al prodotto: ampliandolo.

Ciò che l’economia depressa degli anni ’30 non poteva più garantire, il reddito, l’avrebbe garantito lo Stato. Ma perché ciò fosse visibile occorreva che tale progresso “economico” fosse misurabile e misurato.

Il nuovo araldo del principe fu individuato in un erudito economista ebreo nato in Bielorussia ed emigrato negli Stati Uniti poco più che ventenne: quale sintesi esemplare dell’epopea novecentesca del Capitale.

Il suo nome era Simon Kuznets.

Pochi ricordano questo una volta celeberrimo economista insignito del Nobel nel 1971. Nella sua lunga carriera, cominciata nei primi anni ’30, quando entrò nel NBER, si occupò di talmente tante cose e per così tanti soggetti che raccontare la sua biografia diventa defatigante.

Ai nostri fini, tuttavia, ci interessa un periodo particolare della storia di Kuznets: quello che si consumò fra il 1931 e il 1934, quando assunse la responsabilità di coordinare il progetto che il NBER stava svolgendo per il Dipartimento del Commercio americano, che era alla disperata ricerca di un nuovo indice capace di rappresentare al meglio le esigenze di crescita dell’America di Roosvelt.

Cercavano un indice capace di registrare i progressi del’economia, sedotti dal pensiero magico delle aspettative che si autorealizzano. Quanto più l’indice avesse raccolto e fotografato, tanto più il New Deal sarebbe stato non più un sogno, ma una solida realtà.

La volontà dello Stato, di conseguenza, non poteva né doveva farsi limitare dalla statistica. I pudori dei miti economisti, condannati a doversi guadagnare il pane, dovevano necessariamente farsi da parte.

Nel 1934 il 33enne Kuznets presentò al Congresso americano il suo primo calcolo del Pil, inaugurando la lunga e felice vita a quest’indicatore. Mai certo avrebbe potuto immaginare che sarebbe diventato una divinità, questo indice, anche perché ben ne conosceva i limiti e le complicazioni, come pure provò a spiegare ai burocrati del ministero guadagnandoci solo un prematuro divorzio.

Si ripete, anche per Kuznets, il destino del saggio che pensa d’istruire il regnante, dimenticando che l’istinto animale del sovrano mal si accorda con le aeree astrazioni del pensiero razionale, giudicandole infine manifestazioni invertebrate di una volontà di potenza ancora immatura. E forse è davvero così.

Kuznets, insomma, a un certo punto abbandona il suo Pil, quasi rinnegandolo, come si conviene ad ogni studioso che, ricercando, abbia scoperto di aver dischiuso un vaso di Pandora. Fugge terrorizzato dall’icona totalitaria che aveva contribuito a creare giudicandola ben lungi dal poter rappresentare la ricchezza di una nazione. “E’ difficile capire – scriverà – perché il prodotto netto di un’economia debba includere non solo il flusso dei beni ai consumatori finali ma anche il costo aumentato delle attività governative”.

Difficile da capire per lo studioso, ma non per l’economista politico, genìa ormai in predicato di potenza. E non sarà certo un caso che a chiudere il cerchio statistico saranno ancora una volta gli economisti inglesi, figli di Petty ma soprattutto di Keynes.

Forti dell’eredità di Keynes, tutta una generazione di economisti inglesi confeziona la nuova equazione del reddito (Y), dove innanzitutto la spesa statale G entra di diritto nel computo, aggiungendosi a C (consumi) e I (investimenti).

Coevo di Kuznets, Colin Clarke era inglese infatti. Chimico di formazione, quindi in origine scienziato puro come Marshall e perciò facile alle seduzioni dell’oggettività, scopre la sua vocazione più autentica con la tavola degli elementi del reddito, che compone in un indice sostanzialmente simile a quello del collega americano.

Il suo sforzo era teso a aggregare in un’unica variabile tutte le informazioni di un sistema economico in un determinato periodo di tempo. Il tutt’uno scientifico che promette, una volta conosciuto, l’eldorado di una felicità alla portata di tutti, di cui è sostanzialmente compito dello Stato occuparsi.

Ed ecco “Le condizioni del progresso economico”, come si intitolò il più celebre lavoro di Clarke pubblicato nel 1940.

E un anno dopo, gli ultimi dioscuri della contabilità nazionale, Richard Stone e James Meade, contribuirono, meritandosi per l’occasione un Nobel qualche decennio dopo, a un testo fondamentale pubblicato dal Tesoro inglese (guarda il caso). Il libro si intitolava “An analysis of the source of war finance and an estimate of the national income and expenditure in 1938 and 1940″.

La novità di quel testo fu che per la prima volta il bilancio statale entrò a far parte della contabilità nazionale.

Ecco l’economia di guerra che genera l’economia del dopoguerra che così tanta fortuna ha portato ai politici europei, a cui fu finalmente concesso di distribuire i soldi delle tasse secondo personalissime visioni del mondo.

Fino a quando l’economia del dopoguerra degenera in una nuova economia di guerra, ossia basata su un indebitamento crescente che finisce con lo scaricarsi sui bilanci statali direttamente o per il tramite delle banche centrali. Ma questa è già cronaca.

Prima di arrivarci è utile ricordare che è l’eredità keynesiana a generare il sistema normalizzato della contabilità nazionale. Il lavoro di Stone è la base del national account americano.

Secondo questa visione del mondo alla crescita del prodotto contribuiscono le imprese, le famiglie, la pubblica amministrazione e il resto del mondo.

Gli economisti costruiscono lo strumento, il politico lo suona e la statistica scrive lo spartito. Inizia il concerto della contabilità nazionale che, per funzionare, come abbiamo visto, deve essere quanto più internazionale possibile. La parzialità mal si addice a chi tenda all’assoluto.

Nel 1953 viene pubblicata la prima versione del System of national account, che l’Onu pubblico in versione finale nel 1968. Per colmo di ironia, nell’anno della sedicente grande rivoluzione, si aggiornava il sistema della grande omologazione: la contabilità nazionale dei paesi del blocco occidentale.

Sette anni dopo , nel 1975, fu codificato dall’ufficio statistico dell’Onu il Sistema di statistiche demografiche e sociali, sempre grazie al determinante contributo di Stone, che si vide assegnare il Nobel nel 1984.

Più tardi, nel 1993, quando ormai il processo di omologazione era in fase di avanzato consolidamento un trust di cervelloni dell’Onu, del Fmi, dell’Ue dell’Ocse e del Wto, aggiornò il sistema di contabilità nazionale.

E così arriviamo all’alveare statistico dei giorni nostri che tutti abitano senza neanche saperlo né conoscerlo, celebrando il trionfo della volontà.

Statale.

(2/segue)

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