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La Grande Bellezza, vista da un uomo ordinario

Ho visto “La Grande Bellezza” solo ieri sera, su Canale 5. E mi sono convinto che è un film per addetti ai lavori. Cioè per coloro che vivono quello stesso mondo che il film, con la sua narrazione grottesca e surreale, vuole raccontare. No, non è film per gente ordinaria. Per tutti quegli uomini e quelle donne che non sentono il bisogno di far parte della mondanità eletta a cloaca in celluloide da Paolo Sorrentino. La Grande Bellezza è un Grande Fratello della mondanità di una Roma che vive solo dietro a una telecamera. Che vive sapendo di essere vista. Guardona e guardata. Che è viva solo quando il led è rosso, quello del “REC” della registrazione.
Jep, anche al funerale, sa che è guardato nella diffrazione delle lacrime di coccodrillo degli altri partecipanti, gli ex rivoluzionari debosciati che hanno tutti famiglie sfasciate e che vanno ai funerali dei propri figli che la rottamazione la fanno a bordo delle auto con cui si uccidono.
Come ci si può riconoscere in questo continuo citare e citarsi di questo film che vuole narrare, come dicono alcuni, la decadenza di Roma e dell’Italia. Con lui Jep che, per i più duri di comprendonio come me, il messaggio del film lo manda in sovraimpressione sotto alla cartolina della Concordia accasciata al Giglio. Il selfie d’eccezione per turisti nazionali e internazionali degli ultimi anni.
Non riesco proprio a raccapezzarmi e non posso giudicare un mondo che non conosco. Non ho mai avuto il tempo di annoiarmi come Jep e di passeggiare senza uno scopo. Specie a Roma rischio sempre di arrivare tardi al treno che ormai con la grande velocità parte da Tiburtina. Sul mio volto le rughe e le smorfie non hanno il tempo di distendersi e ritirarsi con le cicliche delle comete e dei fenomeni equinoziali. Sono scattanti e profonde, più tic nervosi che compiaciute pose davanti alla cinepresa.
Non ho mai conosciuto cocainomani. Non ho mai conosciuto donne che hanno bocche e seni rifatti. Non conosco uomini che vanno dall’estetista. E non mi posso permettere di andare dallo psichiatra né dallo psicologo che considero i professionisti della medicina del lusso. Mia mamma, per dire, sono anni che non va neanche dal dentista.

Il film ha fatto molto discutere perché ha vinto l’Oscar. Ma dal mio punto di osservazione, di uomo qualunque, e noiosamente ordinario, l’Oscar non fa altro che confermare che il film piace, evidentemente, ai più addetti ai lavori tra gli addetti ai lavori. Alla giuria di Hollywood. E non deve essere un caso che la giuria che ha premiato Gravity ha premiato anche la Grande Bellezza. Evidentemente quest’anno la giuria è stata affascinata dai racconti extraterrestri.

Il cinema italiano ringrazia. Ma la sensazione è che i riconoscimenti al cinema nostrano arrivino solo quando i registi lavano in pubblico i panni sporchi della nostra provincialissima realtà. E questo temo sia dovuto al fatto che il nostro cinema soffre una incapacità di saper raccontare storie che abbiano un orizzonte più vasto di quello dei nostri quartieri, alti o periferici. I nostri registi non studiano abbastanza e non conoscono il mondo. Non hanno gli strumenti, come del resto temo non ce li ha la classe dirigente del paese per decifrare il mondo globale. Ed è quindi raro che un nostro regista racconti una storia che abbia radici e un milieu fuori dall’Italia. Penso che ieri sera molta gente ordinaria l’avrà visto. Per curiosità. Così come sono sicuro che una buona percentuale gli abbia preferito il Giudice Meschino del più ordinario giudice interpretato dal solito Zingaretti.
Perché la gente ordinaria che non ha SKY, né si può permettere altri canali a pagamento, che non paga neanche il canone, è mortificata sera dopo sera da una programmazione bestiale. Che non è migliorata neanche con il digitale e il moltiplicarsi dell’offerta. Perché, per dire, su Rai 4 l’altra sera in prima serata, se lo volevi, c’era Bruce Lee in “Dalla Cina con furore”. Che è tutto un miagolare e un tripudio di pedate volanti. E se non vuoi vedere Bruce Lee è tutto un talk, una camurria continua di facce brutte della politica nostrana.

La Grande Bellezza è un film per addetti ai lavori, dunque. A conferma di quel disaccoppiamento che c’è nei fatti nella società e che da tempo percepisco sempre più forte e che impedisce a questo paese di essere comunità.

Qualche mese fa mi è capitato di essere a una cena con persone del mondo della cultura e dello spettacolo. Una delle cene più mondane tra quelle che mi sono mai capitate. La serata fu godibilissima, figuriamoci. E le persone al tavolo erano tutte assai a modo. Niente botulino, niente prozac prima del caffè. Eppure, a un certo punto, mi sentii fuori posto. A un certo momento, non ricordo perché venne fuori, portai l’esempio della Ghigliottina, il gioco con cui si conclude l’Eredità, il programma preserale di Rai 1 condotto da Carlo Conti. Mi guardarono tutti a bocca aperta ignari di cosa stessi dicendo. Perché mentre tutto un mondo vive tutta un’altra vita, di eventi, di presentazioni, di conferenze, di una mondanità piccola o grande che sia, io come l’intera normale Italia sto a casa a preparare la cena mentre la TV vomita addosso i programmi che devono spegnerci corteccia e meningi meglio del Tavor.

Un ultimo appunto, in positivo. Sul finale del film, che anche a causa della pubblicità sembrava non finire mai, mi sono ripreso quando ho visto con molto piacere l’interpretazione di Dario Cantarelli nei panni dell’Assistente della Santa. Un bravissimo attore di teatro che avevo visto anni addietro in “Arlecchino, servitore di due padroni” con la Compagnia I Due Fratellini. Ecco, ho pensato. In fin dei conti se La Grande Bellezza è un’occasione per dare visibilità ad attori di questo calibro emarginati tra gli addetti ai lavori del teatro beh, forse un premio anche dalla gente ordinaria se lo merita.

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