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Un’orgia di retorica tra le Europee e il primo maggio

Il sovrapporsi dell’inizio della campagna elettorale europea ad eventi di indubbia rilevanza italiana (il ritorno mediatico di Berlusconi dopo 13 mesi di assenza; le celebrazioni sempre più settarie della resistenza; l’imperversare di analisi sulla crisi della politica italiana talvolta strampalate; le giornate epocali dei Quattro Papi; e la festività del 1° maggio sempre più dedicata alla musica urlata più che alle ragioni del mondo del lavoro), ha sprigionato un’orgia di retorica menzognera, equivoca e pericolosa per il mantenimento di un clima civile nella comunità nazionale.

Va da sé che una campagna elettorale di per se stessa implica un’attenuazione della propositività ed un inasprimento delle polemiche. E tuttavia né tv né giornali hanno dato il meglio del proprio valore. Si sono sfuocate le ragioni dei diversi contendenti. Il senso delle riforme attese da decenni è risultato subordinato a piccole manovrine governativiste. I motivi della semilibertà del capo dell’opposizione prescindevano dalla lunga persecuzione della giustizia militante da questi subita. Si è deliberatamente ignorato il lato oscuro ma purtroppo vero di una lunga guerra civile della quale si parla male soltanto di chi stava dalla parte perdente ma affatto degli assassinati da comunisti benché lottassero per la libertà. Sono abbondate certe sconclusionate affermazioni sul fallimento del centrodestra inteso come elettorato oltre che come esperienza politica. Si è ecceduto nella corsa a produrre, sulla Chiesa di oggi e di quella più recente, interpretazioni scardinate dalla fede e dalla tradizione cristiana. Si è assistito alla stanca reiterazione di raduni che dovrebbero qualche volta preoccuparsi dei non iscritti al sindacato ma che non per questo sono dei fannulloni, dei nemici e magari sono relegati al di sotto delle soglie di sopravvivenza, sistematicamente improtetti o abbandonati alle cure della Caritas.

È stata tutta una decade di cattivo gusto (ma questo, non lo si può pretendere da chi non ce l’ha). Di sciocchezzai sociologisti ed ideologisti di cultura di terzo-quarto livello. Di parole sconclusionate sui rapporti fra resistenza che si pretenderebbe addirittura intesa come fondamento della carta costituzionale e, quindi, di intoccabilità del mostruoso bicameralismo perfetto, via via diventato uno strumento di cooptazione sistemica, il contrario della selezione politica dal basso della classe dirigente. Quest’assieme di negazioni, veti, presunzioni su superiorità antropologiche di una sinistra vera e non di facciata occultante la verità storica, ha dischiuso le porte ad una retorica talvolta persino assurda. Come quella di intestarsi, da parte di pochi, la difesa della Patria: un termine talmente abusato dal fascismo che, nel 1944, Renato Angiolillo e Leonida Repaci sostennero (sbagliando) meritasse d’essere epurato dal lessico costituzionale e da quello dei libri di storia. Almeno il sempre baldanzoso (e perciò sempre meno apprezzato) Matteo Renzi ha detto con sobrietà, circa il 25 aprile 1945, tre sole parole: L’Italia è libera. Espressione, credo meriti ricordarlo, usata quale puntuale giudizio da Il Popolo della Dc e di De Gasperi del 27 aprile, con un titolo a tutta pagina a colori, un inedito assoluto per la stampa italiana dell’epoca.

Va bene il clima elettorale, coi suoi eccessi persino ridicoli. Ma qui, francamente, si è esagerato in provocazioni e in pagliaccismo. Tutti elementi che non invogliano alla partecipazione politica; e, semmai, sospingono gli indecisi e i raziocinanti verso una reazione astensionistica: sicuramente errata, ma almeno libera e non vanagloriosa.

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