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Ucraina: la crisi continua, prime vittime civili. Mosca avverte: «a rischio la pace»

I moniti del Cremlino – «la crisi minaccerà la pace in Europa, si rischia una catastrofe umanitaria» – sembrano confermare le opinioni dell’ultimo editoriale dell’Economist – in edicola questa settimana. Il magazine inglese parla di «Occidente indebolito», incolpando l’America, che ha perso la sua centralità per via «dell’isolazionismo», e chiedendosi cosa dovrebbe (ancora) succedere, affinché gli Stati Uniti ritengano giusto un intervento diretto. Scettici sulle sanzioni, incolpano Obama – che comunque «non avrebbe potuto mantenere le vette di dominio globale raggiunte dopo il crollo dell’Unione Sovietica» – di “essersi peggiorato” la situazione in due modi: per primo, non tenendo fede alle sue minacce (è il caso del superamento delle red lines in Siria per esempio, o, appunto, le annacquate sanzioni contro Putin) è finito per perdere la deterrenza; e poi, l’errore nella scelta dei partner diplomatici (e qui torna Putin e la volontà della creazione di un rapporto amichevole di inizio mandato, ormai abbandonata). L’Economist, pur sottolineando il generale messaggio di debolezza che viene da Washington, scagiona in parte Obama dalla completezza della colpa, affidando le proprie responsabilità a varie contingenze: a cominciare dal nervosismo del Congresso, sempre più fuori dal controllo presidenziale – la bocciatura della proposta d’innalzamento del salario minimo, arrivata la scorsa settimana dal Senato a maggioranza dem, è un segnale pericoloso: soprattutto se si considera il rischio, che arriva dai sondaggi sulle mid term, di perdere quella maggioranza alla Camera alta. Ma non sono però immuni dalle colpe, nemmeno i vari alleati occidentali: a cominciare dal Regno Unito, partner ai tempi dell’interventismo democratico, accusato di aver voltato faccia sull’intervento armato in Siria; così come il resto d’Europa («che ha bisogno del gas russo» e per questo si muove timidamente e con ambiguità sul fronte ucraino, ragiona il settimanale inglese).

Passando dalle opinioni dell’Economist – per altro condivisibili, per altro azzeccate – ai fatti, resta comunque che la soluzione alla crisi nell’Est ucraino sembra distante. Ormai, dato il susseguirsi delle vicende, sembra inopportuno definire quelli di Kiev, dei “blitz militari” come era stato fatto finora: adesso, si tratta di veri e propri combattimenti. Perché, se da un lato l’attacco dell’esercito ucraino si serve di ogni mezzo a disposizione – ieri in serata sono stati visti carri armati e obici muoversi verso Kramatorsk -, dall’altro le milizie filorusse, adesso che è arrivato il momento dell’azione sul campo, sembrano sempre di meno improvvisate forze di autodifesa. Le foto che girano sui social network riprendono le ormai conosciute armi russe in mano ai ribelli, e d’altronde l’abbattimento di una altro Mi-24 dell’esercito – il terzo dall’inizio delle nuove ostilità – conferma che a disposizione dei miliziani ci sono strumenti piuttosto potenti.

Secondo il ministro degli Interni Avakov, il bilancio degli scontri di ieri – che infuocano soprattutto Sloviansk, ma anche Luhansk e Donotesk, così come Odessa – è di 30 morti tra i florussi più altrettanti feriti, e almeno quattro militari dal lato governativo della barricata. Quel che è peggio è che sarebbero anche arrivate le prime vittime civili – uccisi a un checkpoint nei pressi di Sloviansk, in uno scontro a fuoco con le forze dell’esercito governativo, secondo quanto riferisce Ria Novosti citando Igor Strelkov, il comandante delle forze di autodifesa filorusse del sud-est (conferme sono arrivate anche dagli Interni). E arrivano anche le accuse contro i filorussi, di servirsi dei civili come scudi umani.

Nel cuore minerario ucraino del Donbass la situazione sta diventando estremamente seria, soprattutto perché agli scontri si abbinano le circostanze classiche dei conflitti: mancanza di medicinali e scarso approvvigionamento alimentare nelle città sotto il controllo dei ribelli, assediate dal governo – almeno per quanto riportato da fonti russe, che vedremo, vanno pesate, anche perché continuano ad essere in piena campagna propagandistica.

Le diplomazie sono in fermento: mercoledì Putin incontrerà il presidente di turno dell’Osce, lo svizzero Didier Burkhalter, per chiedere una facilitazione nel dialogo in vista delle elezioni presidenziali del 25 maggio, e proponendo un nuovo tavolo di trattative. Anche la Cancelliera Merkel è della stessa opinione, confermando quanto detto oggi dal suo ministro degli Esteri Steinmeier a Repubblica sulla necessità di «una nuova Ginevra». Domani, inoltre, il capo della diplomazia inglese William Hauge, sarà a Kiev; e per il 13 maggio è in programma l’incontro tra la delegazione ucraina – guidata dal primo ministro Yatseniuk in persona – e la Commissione Europea a Bruxelles, per esaminare le misure di sostegno al paese.

Potrebbe essere tardi, però: e non solo perché tutto procede così velocemente in queste ultime ore. L’incontro infatti è fissato due giorni dopo il referendum che dovrebbe tenersi nelle regioni di Donetsk e Luhansk l’11 maggio, autoindetto dai filorussi per decidere sull’indipendenza da Kiev. Nonostante le ostilità, è volontà degli insorti tenere comunque le consultazioni – anche tra scontri e barricate. A quanto sembra, comunque, la situazione appare notevolmente diversa da quella della Crimea: nelle regioni orientali, infatti, la componente d’etnia russa è forte, ma non dominante numericamente – ragione che potrebbe intimidire Mosca da interventi formali di sostegno nel territorio. Dai dati degli ultimi censimenti riportati dall’Ansa, per esempio, si parla del 25% della popolazione a Kharkiv o del 30% nel caso di Odessa – città russa a tutti gli effetti per costumi e tradizioni. E anche le regioni in cui si andrà alle votazioni, le percentuali non sono maggioritarie: a Donetsk i cittadini di etnia russa sfiorano il 48% (che scende al 38 nel resto della regione), a Luhansk il 39%. Kiev, come noto, ha disconosciuto la legittimità del voto, bloccando per altro l’accesso al database delle liste elettorali – ragion per cui, non si sa come l’elettorato (che consta di 3.2 milioni di persone nella regione di Donetsk e 1.8 in quella di Luhansk) potrebbe essere coinvolto e gestito in modo corretto. D’altronde, ancora differentemente dalla Crimea dove il voto era supervisionato (con tutte le controversi e le opinabilità del caso) dalla Russia in un clima relativamente pacifico, nelle due aree orientali le consultazioni avverranno con ogni probabilità in mezzo alle operazioni militari. Condizione che impedirebbe per altro il regolare svolgimento ai seggi, l’arrivo delle schede nelle aree assediate, l’istituzioni di valide commissioni elettorali – che saranno composte, a quanto pare, soltanto dai filorussi. Una probabile farsa, insomma.

Ad aumentare la tensione, poi, ci sarà un contro referendum promosso nella città di Dnipropetrovsk (dove i russi sono solo il 23,5%) – dove ieri si sono verificati attacchi alla banca del discusso oligarca Igor Koloimiski, che ha dovuto sospendere le attività cash, dopo che il magnate aveva promesso 10mila dollari per ogni «terrorista» catturato. Qui, sempre l’11 maggio, si voterà per promuovere la formazione di una “macroregione dell’Est” più o meno indipendente, ma sempre sotto l’egida di Kiev.

In tutto, torna l’ombra della propaganda russa, si diceva. Perché insieme alle attività diplomatiche formali, Mosca abbina le solite pratiche d’influenza e d’informazione deviata. Il ministero degli Interni ha diffuso i contenuti di un Libro Bianco pubblicato riportando notizie di stampa e dichiarazioni ufficiali, in cui Mosca denuncia «rilevanti violazioni di massa dei diritti umani» nelle zone orientali dell’Ucraina. Non solo, perché nelle 80 pagine di Lavrov, sarebbero riportate anche evidenze sull’ingerenza dei governi occidentali sulla decisioni di Kiev e sulla forte influenza della componente di estrema destra ucraina (soprattutto Praviy Sektor) nei combattimenti, tutti descritti come «odiosi tentativi di annientare la cultura russa».

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