Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La liberazione di Bergdahl, solo l’inizio di una lunga storia

La liberazione del sergente di fanteria Bowe Bergdahl, l’ultimo rimasto nelle mani dei talebani afghani, sta allungando la sua onda. Il Congresso è infuocato: non solo la questione del “prezzo fissato” per gli scambi dei rapiti, ma anche i nuovi numeri di Guantanamo, che raccontano che molti dei prigionieri liberati sono tornati tra le attività terroristiche.

Le misure contenitive a cui i cinque rilasciati saranno costretti in Qatar, non bastano come rassicurazione: divieto di incitazione alla violenza, divieto di raccogliere sostegno economico, divieto di lasciare il paese per un anno; non granché, insomma.

Ma le perplessità si legano comunque, anche alla figura del sergente: mano a mano che passano i giorni, aumentano le notizie (parecchie da confermare) sulla sua storia. Riviste e siti militari chiedono di non chiamarlo “eroe”, sui social network si diffondono hashtag con accostato al suo nome la parola “traditore”, ad Hailey (la tranquilla cittadina dell’Idaho dove è cresciuto) lo sceriffo e il sindaco hanno deciso di disdire la festa in suo onore, programmata per il 28 giugno, per evitare che potesse diventare il punto di aggregazione per manifestazioni di protesta contro il soldato. Qualcuno ha minacciato di morte il padre del soldato – l’ormai famoso Robert, ormai conosciuto quasi quanto il figlio – diversi insulti sono arrivati ai suoi altri famigliari (direttamente o sotto forme intimidatorie).

Bowe non sa niente di quello che succede intorno a lui: sta benone, problemi di funghi e affezioni gengivali – tipici della scarsa igiene a cui era sottoposto -, ma niente di che. Si trova ancora nell’ospedale di Landstuhl. Non ha accesso a fonti informazioni, è sottoposto a cure mediche ricostituenti (ha problemi di nutrizione che si stanno risolvendo, dorme circa 7 ore a notte). Insieme  le analisi psicoattitudinali, e sembra che stia riprendendo a comunicare in inglese, perso negli anni di prigionia. Fisicamente potrebbe viaggiare, ma psicologicamente non è pronto al ricongiungimento famigliare e all’esposizione mediatica.

Una dura prigionia, almeno inizialmente: sarebbe stato più volte messo in una gabbia, al buio – secondo fonti citate dal New York Times. In particolare, le strettissime restrizioni sarebbero scattate in un paio di occasioni, in cui Bowe aveva cercato di scappare: la punizione, vivere per mesi come un cane, senza luce. Gli uomini della rete Haqqani «non sono balie», commenta uno dei funzionari contattati dal NyTimes. 

Adesso in ospedale lo chiamano sergente, ma a quanto pare lui non capisce: non sa delle due promozioni scattate mentre era detenuto in Afghanistan. Ha indossato nuovamente la sua uniforme a metà settimana scorsa, per la prima volta dopo i cinque anni di prigionia. Chissà, però, se quando starà meglio, non dovrà affrontare addirittura la Corte Marziale: c’è già una petizione di oltre 10 mila firme, che ha chiesto alla Casa Bianca il giudizio militare.

Dai racconti dei commilitoni, sembra infatti che la sera del suo rapimento, Bergdahl avesse lasciato deliberatamente l’accampamento – l’Avamposto Mest Malak (qui le mappe), nella remota area tribale afghana al confine con il Pakistan. Avrebbe posato elmetto e fucile, con sé solo una bussola, forse – raccontano ancora i compagni – per arrivare a piedi fino in India (avrebbe confessato più volte questa sua intenzione in precedenza). Tanto che dalle notizie che filtrano su un’inchiesta condotta sul fante Bergdahl, quello di quel giugno non sarebbe stato il primo allontanamento. L’indagine interna è segretata con il codice AR15-6, ma la questione dilaga nel dibattito pubblico, tanto che qualche funzionario ben informato si è fatto uscire con i media americani, più di un rumor sulle 35 pagine del documento. E si scopre così, che l primo allontanamento ci sarebbe stato addirittura ai tempi dell’addestramento, da un poligono di tiro in California; poi arrivato in Afghanistan un’altra passeggiata (o forse più di una) non autorizzata fuori dal filo spinato della postazione.

“Uno spirito libero” lo definiscono i report dell’esercito, che non si spingono mai al punto della diserzione: leggeva libri, beveva té verde con i soldati afghani (e voleva imparare a prepararlo in modo tradizionale), era incuriosito dalla cultura locale. Mille interessi e mille attività, che hanno caratterizzato Bergdahl fin da piccolo, spinto da mamma Jani e papà Robert – casa piena di volumi, niente telefono, dell’educazione di Bowe e della sorella se ne sono occupati i genitori, fuori dalle scuole. Molta cultura e molta aria aperta: Bowe da piccolo cacciava e pescava, si arrampicava in montagna, faceva trekking, tiro, kayak, motocross, arti marziali e poi quello che non ti aspetti: il balletto. Voleva scoprire il mondo, viaggiare.

“Un idealista”, si legge ancora in quei report: qualche compagno ha raccontato che spesso aveva espresso noia, frustrazione, delusione: voleva più azione, voleva andare a sfondare le porte dei cattivi, era lì per quello, diceva. I compagni di unità, erano a conoscenza dei suoi problemi: ma erano in guerra, e più di controllarlo – e sembra segnalarlo – altro non potevano fare.

Dalla passeggiata del 30 giugno 2009, Bergdahl non tornò. Fu catturato: i talebani della spietata formazione Haqqani che lo avevano in mano, lo raccontano a tratti anche come un buon prigioniero – ma forse è propaganda. A volte giocava a badminton con le sue guardie, comunicava nella loro lingua, gli avevano anche passato libri islamici, ma a quanto pare non era troppo interessato; cambia spesso aspetto, dalla barba lunga ai capelli rasati. Qualche anno fa in uno dei video diffusi sulla sua prigionia, si parlava che fosse passato dalla loro parte, era diventato un addestratore per i combattenti, convertito. Tutto smentito nel video successivo, quando i talebani stessi raccontarono, un po’ più arrabbiati, che si era trattato solo di un espediente, utilizzato dal soldato per tentare la fuga: ci provò sia nel 2011 che nel 2012, ma fu sempre ripreso.

Mentre il Mullah Omar parla di vittoria dei Taliban (per la liberazione dei compagni in contropartita a Bergdahl), e un altro capo dell’organizzazione, Maulvi Mubarak, minaccia nuovi rapimenti in modo da avere altre pedine di scambio con gli Stati Uniti, a Washington si pensa a questa strana storia accostandola a quella raccontata dal telefilm “Homeland”.

Non è un caso, infatti, che nelle immagini della liberazione, si vede uno dei membri delle forze speciali che prendono Bergdahl in consegna, perquisire il commilitone più volte prima di portarlo a bordo del Black Hawk di supporto.

@danemblog

 

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter