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Riannodare i fili tra Gaza e Israele

Da una decina di giorni si sta combattendo (di nuovo) una guerra nell’area israelo-palestinese; dalle 9:00 fino alle 14 di questa mattina c’è stata una tregua umanitaria – concordata da entrambe le parti – per permettere l’arrivo di aiuti e soccorsi agli abitanti di Gaza.

La tregua è durata poco, visto che già dopo un paio d’ore, da Gaza sono stati lanciati tre colpi di mortaio verso Eshkol, e appena dopo le 14 Israele ha ripreso i bombardamenti. Intorno all’una, erano anche girate notizie che parlavano di un cessate il fuoco, ma entrambi gli schieramenti hanno fatto sapere che nessun accordo è stato raggiunto, sebbene ci siano in atto intensi negoziati, mediati – come ormai solito – dall’Egitto.

Tuttavia a bocce quasi ferme si può cercare di fare il punto su quello che sta succedendo, provando ad elevarsi da editoriali embedded e posizioni preconfezionate, e cercando di tenere l’occhio (più o meno) sui fatti – nonostante cambino continuamente.

Chi combatte. A parte le solite discussioni da bar che sporcano le bocche con parole enfatiche e prive di senso (genocidio, nazismo, e via dicendo), la guerra che Israele sta portando avanti, non è contro la Palestina, ma contro Hamas – di preciso sarebbe da dire contro il suo braccio armato, le Brigate Ezzedine al-Qassam. Hamas è di fatto, un’organizzazione terroristica, che rivendica e ha rivendicato in passato, azioni di terrore.

Che cosa sta succedendo. Israele non ha esattamente una strategia di lungo termine: quello che sta conducendo è un attacco tattico, contro la milizia estremista – che governa la Striscia dal 2007. Questo non vuol dire che tutto finirà a breve, anzi, secondo le notizie che sono girate in queste ultime ore (avallate anche dal Washington Post e dal New York Times), ci sarebbero fonti della sicurezza israeliana che hanno rivelato che l’attacco di terra è vicino – e nelle zone di confine con Gaza, c’è molto movimento di militari (sembra siano stati richiamati altri riservisti). Per il momento Israele sta conducendo una guerra aerea, mirata a distruggere gli arsenali degli armamenti di Hamas, alla quale il gruppo risponde con il lancio di missili (di varia entità, dai più piccoli Qassam, fino ai potenti M-302) verso le città israeliane.

Come tutto è cominciato. Se c’è una data per l’inizio di questa nuova ostilità, si può farla risalire al 7 luglio. In quel giorno furono sparati 85 razzi contro Israele, e Netanyahu si convinse a dare il via alla Operation Protective Edge. Il contesto, però, era già pesante per una serie di brutti episodi di cronaca: a cominciare da quello che successe il 12 giugno, con il rapimento dei tre ragazzi yeshiva, che furono poi trovati morti in un campo, diciotto giorni dopo. Israele accusò subito Hamas, che però non ha rivendicato mai il gesto; ad aggravare le accuse, il ritrovamento è avvenuto in una proprietà del clan Qawamesh, famiglia molto potente nelle zone di Hebron, considerata vicino ad Hamas – ma che molto spesso si è distinta per le attività abbastanza libere e svincolate dall’organizzazione centrale. In mezzo, qualche giorno dopo, il terribile ritrovamento del corpo, nei boschi che circondano Gerusalemme, di un ragazzo palestinese di 16 anni, bruciato vivo. Sono scattate inchieste della polizia israeliana, che hanno portato alla cattura di sei elementi vicini al mondo dell’estremismo ebraico – di questi tre avrebbero confessato, ma non si sa esattamente chi siano, forse kahanisti, forse ultras nazionalisti del Beitar Jerusalem). C’è stato pure un altro morto: Shelly Dadon, 20 anni, ebrea, uccisa da un tassista arabo-israeliano – se n’è parlato poco, ma sembra che l’omicidio abbia radici etniche. Nonostante tutto, la situazione non era così pessima come quella attuale: Israele non aveva avviato una vera e propria offensiva militare, ma si limitava al rastrellamento delle zone della Cisgiordania, prima per ricercare i ragazzi (inutilmente), dopo per stanare nascondigli e basi di Hamas nel West Bank. L’azione, come detto, è scattata dopo che Hamas ha cominciato a lanciare missili con frequenza insostenibile.

I motivi della guerra. Limitare l’escalation di violenza ai fatti di cronaca – i tre ragazzi, il giovane palestinese, il tassista arabo omicida – è quanto meno miope e riduttivo; tuttavia anche scavare troppo indietro nelle ragioni storiche non sarebbe corretto. Cercando di contingentare la situazione a un mobile presente, si può dire che quello che abbiamo davanti è frutto di una serie di situazioni. Israele, per esempio, è entrato a conoscenza di movimenti pericolosi all’interno della Striscia: sono ricominciati i finanziamenti iraniani (se n’era parlato su Formiche), che stanno permettendo un ulteriore rinforzo militare al gruppo; allo stesso tempo, Israele è molto preoccupato della possibile fascinazione che il Califfato può premere sui giovani palestinesi. Circostanze che hanno messo in guardia Tel Aviv da qualche tempo. Il motivo dell’azione militare, come spesso succede con Israele, è la deterrenza: combattere Hamas mostrando i muscoli, spaventare possibili proseliti, evitare derive pericolose sugli echi del Califfo. Tutto questo si inquadra in un momento storico in cui il partito/milizia non è troppo condiviso dalla popolazione: rispetto al 2007, quando i l’opinione favorevole era al 62%, quest’anno è scesa al 35. Ovvio che Netanyahu – che pure era contrario in partenza ad ampliare l’azione militare – non avrebbe potuto rispondere subito con attacchi aerei al crimine del rapimento, mentre invece il lancio di razzi contro la sua popolazione è un atto che chiede difesa.

Una situazione ormai ciclica. Israele ha lasciato, unilateralmente, Gaza nel 2005: da quella data, e dopo la vittoria di Hamas nel 2007, come fa notare Giovanni Fontana sul Post, c’è stato un ripetersi ciclico degli eventi. «Israele fa coincidere l’inizio con un casus belli istigato dall’altro fronte, uno che possa definire l’intervento militare come operazione difensiva, consapevole che la scelleratezza di Hamas non mancherà di offrirne» scrive Fontana. Così è stato per Piombo Fuso” nel 2009, per “Pilastro di difesa” nel 2012, ed è adesso per “Margine di protezione”; Israele ha concesso periodi di “tregua”, durante i quali Hamas ha continuato a rafforzarsi militarmente e a lanciare saltuariamente razzi, per poi riattaccare nuovamente per cercare di indebolirla. D’altronde, nonostante la forza militare israeliana sia tra le più preparate, potenti e tecnologiche, al mondo, e dunque in grado di spazzare via completamente Hamas, Tel Aviv sa bene che questo non è possibile: il costo, in termini di vite e danni sociali, sarebbe enorme ed insostenibile.

La questione dei civili e dei morti. Nella nostrana razionalizzazione, spicciola e calcistica, oltre al fenomeno dei tifosi da curva pro-l’uno pro-l’altro, si è spesso assistito ad una stupida conta da tabellone sul numero delle vittime. Come se quel 200 e passa a 1 – palestinesi morti contro israeliani morti – avesse un senso e come se non si parlasse di vite umane. Dietro, c’è molto da dire, che spesso in quella narrazione da tifoseria che ci ammorba, viene dimenticato. Si dovrebbe partire subito col fare una considerazione: in guerra i civili muoiono per due ragioni, una sono i danni collaterali, l’altra la volontà di ucciderli. La prima, i danni collaterali – definizione terribile, che sembra non tenere conto che si tratti di vite umane -, si lega all’efficacia delle operazioni: quanto un intervento militare è disposto a “rallentarsi” pur di salvare le vite dei civili? Quanto uno Stato evita di fare raid se sono presenti potenziali vittime civili? In questo, nonostante gli ultimi fatti dimostrino il contrario (vedi la tragedia dei quattro ragazzini uccisi mentre giocavano in spiaggia mercoledì), l’esercito israeliano è un passo avanti a tutti gli altri e utilizza precauzioni che nessun’altra forza militare usa (chiamate dirette nelle case che saranno soggette a raid, sms, volantini, messaggi audio e video, attacchi aborti anche all’ultimo momento, colpi di “roof knocking“). Questo, diciamo così, sulla carta: poi nei fatti spesso accade il contrario, e cioè che i colpi arrivano direttamente senza “bussare” per avvertimento, i messaggi di vario genere non raggiungono tutti gli abitanti delle aree di Gaza, abitanti che spesso per varie ragioni (persone anziane, malati, donne incinte, bambini) hanno per altro difficoltà a fuggire e ripararsi – come denunciano fonti palestinesi. Qui, adesso, entra in gioco l’altro modo di trattare i civili, quello di Hamas: l’idea del gruppo palestinese è di fare più vittime civili possibili. Per questo Hamas lancia razzi non soltanto su obiettivi militari, ma cerca di colpire il cuore delle città israeliane. Se sono morte poche persone dello Stato ebraico durante questi ultimi anni di conflitto, è perché Israele si è organizzato per difendersi, con un sistema di batterie antimissile come l’Iron Dome e con allarmi, zone protette, diffusione e insegnamento a riconoscere il pericolo – quando suonano le sirene, tutti gli israeliani sanno cosa devono fare, lo fanno senza esitazione, e di questo non gliene può fare una colpa, a meno che non si sia stupidi o intellettualmente sporchi. Dunque, sia chiaro, che i morti da Tel Aviv a Eliat, sono così pochi non certo perché Hamas ha missili “leggeri” e intenzioni limitate. Nella gestione dei civili delle milizie palestinesi, rientra poi anche l’uso degli scudi umani – pratica storicamente riconosciuta ad Hamas, benché sia un crimine di guerra, circostanza di cui Hamas se ne frega, visto che è un gruppo terroristico. Martiri elogiati in video, e discorsi che servono alla causa, soprattutto come specchietto mediatico. Hamas chiede ai propri cittadini, di raccogliersi sui tetti degli edifici, sapendo che in quei casi Israele blocca l’attacco. Perché quei civili sono lì? Perché Hamas (altra pratica storicamente riconosciuta) raccoglie in “zone ed edifici civili” materiale bellico – IDF sostiene, in modo per certi aspetti incoerente rispetto a tutta quella profilassi che in altri spazi si vanta di rispettare al momento dei raid, che se strutture civili sono usate a scopi bellici, allora diventano a tutti gli effetti obiettivi bellici (sì, così non se ne esce, ed è proprio questo il punto). Gli scudi umani (e gli “scrupoli” d’Israele) rappresentano ovviamente un’arma nelle mani dei miliziani di Gaza, che la usano in primis come metodo per fa saltare i raid e, allargando l’orizzonte strategico, come via per ottenere l’indignazione internazionale, affinché i governi in giro per il mondo facciano pressioni su Israele per accettare le condizioni di Hamas (come scriveva il Washington Post).

Cosa succederà adesso. È difficile dirlo: in questi casi si usa l’espressione “la situazione è molto fluida”, modo in cui gli analisti classificano quelle cose il cui risultato può portare a un “bianco” come a un “nero” nel giro di pochi istanti. Infatti, sebbene come si diceva si sta portando avanti un complicato negoziato, la regione di Eshkol è attualmente sotto un intensa pioggia di missili. Nell’area sud israeliana, vicino al confine con Gaza, il governo ha chiuso diverse strade: sembra che alcuni miliziani di Hamas siano riusciti a infiltrarsi dentro il territorio dello Stato ebraico (ci avevano già provato nella mattinata, ma sono stati bloccati): nella stessa zona, nel 2006, fu catturato il soldato israeliano Gilad Shalit. Proprio intorno a quella vicenda di otto anni fa, ruota un importante passaggio del negoziato: Hamas chiede che i 52 militanti rilasciati da Israele come pagamento del riscatto per il soldato, vengano nuovamente liberati, dopo che durante le ricerche dei tre yeshiva di giugno erano stati nuovamente messi in prigione.

@danemblog

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