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Ecco perché il Fiscal compact frena la ripresa italiana

Grazie all’autorizzazione dell’autore pubblichiamo il commento di Gustavo Piga e Paolo De Ioanna uscito sul Sole 24 Ore

Un gruppo di economisti e giuristi, di orientamento europeista, ha messo in moto, con la raccolta delle firme, la procedura per proporre al corpo elettorale l’abrogazione di quattro diposizioni della legge «rinforzata» n.243 del 2012 (Governo Monti), che intende attuare il principio del «pareggio di bilancio».

Il corpus normativo che attua il pareggio (art. 81 Cost.; art.5 della legge cost. n1/2012; legge n. 243/2012) è stato pensato e organizzato per blindare la politica fiscale italiana su una rigida conformità alle prescrizioni di un Trattato internazionale (il Fiscal compact) che non è parte dell’ordinamento comunitario europeo. Così facendo ci siamo autoblindati dentro un meccanismo che, come ha chiarito il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble in un’intervista a Le Monde (20 luglio 2014), è keynesiana in Germania (moderazione fiscale a fronte di un buon andamento dell’economia) ma, aggiungiamo noi, deflattiva nel resto dell’Europa, soprattutto nei paesi del sud. A poco servirebbe ricordare a Schaeuble che la politica economica per avere successo o è europea o è destinata a infrangere il Continente contro gli scogli.

Non è solo una questione “tra aree” dell’area euro ma anche “tra periodi” dell’area euro: a un errore marchiano di politica fiscale troppo espansiva nei primi anni dell’euro quando le cose andavano bene, se ne aggiunge un altro temibile oggi, quello di una politica fiscale restrittiva nei paesi in preda alla recessione. Rimane incomprensibile ai più come ad un Paese come l’Italia che flirta pericolosamente col terzo anno consecutivo di recessione si possa imporre un aumento dell’avanzo primario per il 2015 di 0,7% di Pil e 1,1% di Pil per il 2016: non ci vuole un Keynes ma basta un qualsiasi economista per rimanere inorriditi dall’ottusità di una simile scelta che, oltre a far crescere il rapporto debito-Pil, ha l’effetto negativo di deprimere le aspettative degli imprenditori e delle famiglie.

Con i quesiti referendari ci si propone di eliminare dalla legge n. 243/2012 alcune norme che esprimono un’attitudine verso l’austerità non richiesta dall’ordinamento europeo e non richiesta dallo stesso Fiscal compact. Ad esempio, come è noto, il Fiscal per i paesi con debito superiore al 60% del Pil fissa un limite all’indebitamento netto annuo strutturale dello 0,5%. Con la 243 abbiamo consentito di masochisticamente inchiodarci chissà perché al raggiungimento dello 0%.

Più di tutto, l’ambizione del Comitato promotore di cui facciamo parte è quella di creare le condizioni per un processo decisionale democratico che torni a riflettere su alcuni profili dell’austerità che ci sembrano palesemente irragionevoli e contraddetti dai fatti. Gli esempi su cui vorremmo ci si concentrasse per una riforma intelligente dell’apparato del Fiscal compact abbondano, ma ci limitiamo a menzionarne due.

Primo, mentre è vero che la nostra iniziativa non intende abrogare il nuovo art. 81 della Costituzione (che non può essere sottoposto a procedura referendaria, come è evidente anche ad uno studente del primo anno di legge), ci viene naturale argomentare che se il vecchio art. 81 avesse incorporato il pareggio, lo sviluppo economico tra gli anni 50 e 70, largamente spinto da investimenti pubblici finanziati anche con debito, sarebbe stato sostituito da una lenta (e forse autoritaria) progressione, sul modello portoghese o spagnolo.

Secondo, se è vero che alcuni profili del nuovo art. 81 (equilibrio del bilancio che tiene conto delle fasi favorevoli e avverse del ciclo; sostenibilità del debito) sono ragionevoli e si pongono in continuità con le migliori letture del vecchio art. 81, la loro interpretazione meccanicistica (rientro del rapporto debito-Pil senza se e senza ma) e ancorata a parametri non oggettivi (deficit strutturale legato al Pil potenziale e alla disoccupazione naturale) hanno congelato la nostra politica fiscale, depotenziando anche i limitati margini di azione, pure consentiti dall’ordinamento comunitario. Dunque il referendum vuole essere una occasione democratica per riflettere e decidere sul nostro futuro a breve e lungo termine, senza legarci a una austerità cieca e senza sbocchi.

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