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Così l’Italia può diventare sexy agli occhi di Washington. Parla Simone Crolla (AmCham Italy)

Cosa frena gli investimenti stranieri in Italia? Le recenti mire cinesi su Snam e Terna, forse più dettate da calcoli geopolitici che dal ritorno economico, hanno riacceso il dibattito. Visto dall’altra sponda dell’Atlantico il nostro rimane un Paese attrattivo, ma ancora indietro rispetto ai nostri principali competitor.
A spiegarlo è Simone Crolla, managing director dell’American Chamber of Commerce in Italy, che ha da poco presentato un proprio rapporto sul rischio regolatorio in Italia. In una conversazione con Formiche.net, il manager illustra punti di forza e debolezza del Sistema Italia, che ha le carte in regola per essere seducente agli occhi di Washington. A patto che…

Com’è vista in questo momento l’Italia dagli investitori americani?

Al momento attraiamo lo 0,6 percento del totale degli investimenti americani nel mondo. Guardando a queste cifre potremmo dire di essere fuori dal radar. Ciò dipende in parte da una tendenza che riguarda tutte le economie mature, ma anche per i nostri ben noti problemi. La Country commercial guide for U.S. companies, un documento ufficiale del governo Usa che spiega ai cittadini americani punti di forza e debolezza dei Paesi dove investire, contiene anche una scheda sull’Italia. Il nostro viene descritto come un Paese in cui c’è poca chiarezza nel settore pubblico – giustizia, pubblica amministrazione, ecc. – rispetto ad altre democrazie. Questo rappresenta un punto di partenza sul quale lavorare, anche perché non siamo di fronte a un destino ineluttabile.
Dall’altro lato infatti assistiamo a operazioni molto interessanti. Sia sul versante finanziario e immobiliare, dove anche grazie a Renzi che dà l’immagine di un Paese dinamico, fondi come Blackstone – che ha da poco acquistato la storica sede del Corriere in Via Solferino a Milano – hanno deciso di puntare sull’Italia. Così come hanno fatto tanti altri investimenti industriali da General Electric con Avio a Whirlpool con Indesit o ad Amazon che ha scelto in Piacenza il suo hub europeo. In previsione c’è anche un grosso investimento industriale di Philip Morris, che ha scelto Bologna per produrre le sigarette del futuro. Senza contare la grande opportunità data dal prossimo Expo 2015 di Milano e dalla presenza nel padiglione americano.

Quali i punti di maggior debolezza del Sistema Italia?

L’Italia soffre di un deficit di competitività rispetto agli altri Paesi europei. A causarlo, secondo le stesse imprese, sono l’inefficienza delle istituzioni pubbliche, gravi carenze del sistema giudiziario, eccessivo carico fiscale, carenza delle infrastrutture di trasporto, costo e scarsa flessibilità del lavoro, inadeguatezza degli incentivi economici, finanziari e fiscali, costo e inefficienza delle infrastrutture di rete, scarsa tutela della proprietà intellettuale.

AmCham ha presentato da poco un rapporto sul rischio regolatorio in Italia. Quanto incide in queste scelte?

La nostra è un’analisi parziale, ma di tutto rispetto perché condotta su centinaia di aziende tra le nostre 500 associate. Tuttavia non include elementi di particolare novità.
La ricerca ha messo in evidenza come il rischio per le aziende non solo esista (il 27% delle aziende intervistate ritiene che la quota di valore legata al quadro regolatorio sia maggiore del 50% del EBITDA) ma sia anche in crescita (il 77% degli intervistati ritiene che l’attività regolatoria nel proprio settore sia aumentata e il 63% che aumenterà ancora nei prossimi tre anni). Le aziende si trovano ad operare in un contesto normativo complesso, corposo e che nel breve-medio periodo non mostra segni di apertura a prospettive di semplificazione o riduzione del proprio perimetro. Il nostro, ma non lo scopriamo oggi, è un Paese iper-regolato e senza certezze di diritto e di norme, come dimostra il recente caso del taglio retroattivo agli incentivi per il fotovoltaico.

Che ricetta propone l’AmCham?

Diamo alcune raccomandazioni, proposte dalle stesse aziende. Regole chiare e trasparenza del processo di produzione delle politiche e del quadro normativo sono elementi essenziali non solo per il miglioramento della qualità delle politiche ma anche delle condizioni, più generali, di semplicità di fare impresa in Italia.

In un recente commento sul Messaggero, l’ex numero uno delle relazioni esterne di Enel, Gianluca Comin, ha lanciato la proposta di “una moratoria legislativa che impedisca il continuo mutare del quadro normativo nel quale le imprese”, non solo italiane, “devono operare”. Che ne pensa?

Una proposta che idealmente sottoscriviamo, così come abbiamo apprezzato il lavoro svolto dal governo Letta con Destinazione Italia, un documento poi accantonato, ma che andava nella direzione giusta. Anche quello sarebbe stato un invito a investire nel nostro Paese con sicurezza.

Innovazione e digitalizzazione possono essere un driver nella crescita dei rapporti commerciali tra Italia e Stati Uniti?

Durante il governo Monti abbiamo redatto un position paper proprio rispetto a questi temi e che venne quasi del tutto adottato per redigere l’Agenda Digitale. Ci crediamo molto e stiamo organizzando a ottobre un grande evento in cui divulgare dati interessantissimi. Oggi l’economia digitale rappresenta nel nostro Paese il 2 percento del pil, la stessa quota dell’agricoltura, ma non ha un ministero né una rappresentanza o una sensibilità adeguata. Questo dà la dimensione di quanta strada ci sia ancora da compiere in quella direzione.

Come valuta invece gli effetti del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il Ttip?

Sarebbe una grande opportunità di crescita per le nostre aziende. Il nostro sistema industriale composto in larga parte da Pmi avrebbe accessi con più facilità a un nuovo grande mercato. I benefici potrebbero essere importanti. Perciò auspichiamo che l’accordo possa chiudersi in fretta con le intese che già ci sono, discutendo con calma i punti che ancora ci dividono.

Si riferisce alle polemiche sulla Google Tax?

Sì, ma non solo. Ritenevamo quell’imposta fortemente sbagliata, perché frutto della mentalità di un Paese ripiegato su sé stesso. Auspicavamo invece un dibattito ampio a livello europeo, perché l’Italia non respinga le opportunità che arrivano dal mondo di Internet, ovviamente attraverso la definizione di norme fiscali uguali per tutti.

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