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Il peso delle lobby mediorientali in USA: Israele

Se qualcuno crede che l’arma più potente che Israele nasconde nel suo ricco arsenale sia la bomba atomica, si sbaglia. Per lo Stato ebraico non c’è sistema di deterrenza, armamento, tecnologia, più importante degli elettori americani. Mentre tutte le altre realtà mondiali, per prime quelle mediorientali, devono assumere fior di consulenti per portare avanti le proprie istanze tra gli uffici della più grande (e ricca) democrazia del mondo, Israele può contare su un esercito di base, composto da milioni di elettori statunitensi. Soldati che hanno contribuito a portare le questioni israeliane tra le priorità esistenziali dell’agenda americana – per gli scettici, basta pensare al nucleare iraniano, all’equilibrio nella regione mediorientale, al ruolo israeliano all’interno del mercato mondiale.

Dunque, prima delle lobby, nel discorso che segue va messo sottolineato il peso delle varie constituency, sempre molto vicine al popolo ebraico e traino per le principali decisioni politiche americane: sostenere Israele è fare buona politica per gli uomini di Washington, andare cioè in accordo con le volontà dei propri elettori. Dati Gallup dicono che difficilmente il supporto dei cittadini americani ad Israele è sceso sotto il 40% di consensi, tenendo una media di oltre il 60.

Dunque l’influenza delle agenzie di relazioni e delle lobby, viene secondariamente, e, soprattutto in questo ultimo periodo, ha un valore relativo.

Non si può comunque dire “Israele in America”, senza l’immediata associazione all’AIPAC. Probabilmente la più potente e influente lobby estera negli Stati Uniti, l’American Israel Public Affairs Committee opera tra gli uffici di Washington da mezzo secolo, conta 100 mila membri (non tutti lobbisti, chiaramente) e spende oltre 60 milioni di dollari l’anno per promuovere i “forti legami tra Israele e Usa” – di questi, oltre 3 sono destinati prettamente alle attività di lobbying.

AIPAC non si configura come comitato di azione politica, diciamo  che ha più uno scopo socio-culturale; tra gli assegni staccati non ci sono dunque quelli per finanziare le campagne elettorali. Questo tuttavia non esclude che membri dell’AIPAC costituiscano gruppi di finanziatori: MapLight (associazione no-profit che si occupa di monitorare il sostegno economico alla politica americana) ha stimato che questi gruppi hanno investito quasi 9 milioni di dollari per sostenere i propri candidati al Congresso nel 2012-13 – in cima alla lista dei “sostenuti” c’è Mark Kirk, senatore dell’Illinois, cofirmatario della proposta di legge per aumentare le sanzioni all’Iran, arrivata proprio in mezzo ai negoziati sul nucleare.

In realtà il Comitee pro-israeliano, ha vissuto anche episodi controversi, in particolare legati alle connessioni con Israele. Il governo di Tel Aviv non finanzia direttamente l’AIPAC, almeno ufficialmente: ma nel 2005  due importanti funzionari furono incriminati per aver passato segreti militari e industriali a Israele. Di fatto, si sarebbe trattato di uomini dei servizi segreti, infiltrati da anni all’interno del comitato. Ma l’AIPAC è forte, tanto che nessuno è (quasi) più tornato sulla vicenda – d’altronde spiacevole, per i rapporti diplomatici che legano i due Paesi. Sia Obama che Romney, ai tempi delle elezioni del 2012, dedicarono un intervento alla lobby israeliana, riservando esclusivamente elogi – «Ad ogni momento cruciale, ad ogni bivio, ci siamo stati per Israele» disse anche Obama.

L’impegno americano – quell’essere fianco a fianco nei “momenti cruciali” di cui parlava il Prez – secondo le stime del Congressional Research Service, ha permesso a Israele di accumulare aiuti statunitensi (di vario genere) per un totale di 121 miliardi di dollari, dal 1948 a oggi. Israele è l’unico destinatario di aiuti stranieri americani, autorizzato ad usare una parte di questi (il 26,3% secondo le attuali normative) per investimenti nel settore militare interno: per il 2014, tanto per dare i numeri, ci sono 815 milioni che il governo israeliano potrà foraggiare alle industrie nazionali degli armamenti.

Ma non solo AIPAC. Israele può anche contare sul sostegno psicologico e culturale di diversi think tank, anche parecchio autorevoli sullo spectrum politico americano. Primo fra tutti, il Washington Institute for Near East Policy, fondato nel 1985 da Martin Indyk, già direttore del centro ricerche dell’AIPAC, attualmente a capo della Brookings Istitution (di cui è anche vicepresidente) e inviato della Casa Bianca in Medio Oriente (Indyk ha una carriera diplomatica lunga diverse pagine, basta pensare che è stato anche ambasciatore americano in Israele e assistente del Segretario di Stato). L’anno scorso, invece, un altro pezzo grosso dell’AIPAC, l’ex portavoce Josh Block, ha preso il timone di The Israel Project – luogo storico delle pr pro-Israele, definita come «la più importante agenzia di relazioni pubbliche non governativa israeliana».

Per gli investitori che cercano consulenze legali o fiscali, invece, il governo di Tel Aviv ha ingaggiato gli studi legali Arnold&Porter e Sidley Austin, al costo di 1,5 milioni di dollari l’anno.

Inutile ricordare gli stretti legami che Israele ha con il mondo della Difesa americano – e con chi la rappresenta al Congresso. Probabilmente l’aviazione dell’IDF sarà la prima, straniera, ad utilizzare gli F-35 operativi, mentre (come raccontato in un rapporto Bloomberg) l’azienda produttrice di missili del Massachusetts Raytheon, si è aggiudicata un importantissimo appalto per le forniture alla tecnologia di intercettazione Iron Dome.

Il sistema di influenza israeliana negli Stati Uniti è complesso e articolato, quanto potente; tuttavia i rapporti diplomatici tra i due storici alleati, negli ultimi tempi si stanno annacquando. Obama ha molto pressato per l’avvio dei negoziati con i mullah per il nucleare iraniano, senza che l’AIPAC riuscisse a farli saltare; circostanza che ha sollevato critiche e indignazione a Tel Aviv, con i falchi del governo Netanyahu che spesso ci sono andati giù pesanti. Come pure su John Kerry: il Segretario di Stato è stato l’uomo incaricato da Obama, per gestire il dossier “pace” tra Israele e Palestina. Pace che ad inizio del primo mandato di Obama, era quasi data per scontata, ma che con il passare del tempo, a negoziati avviati, è risultata irraggiungibile. L’«uomo apocalittico e messianico», come lo aveva definito il ministro della Difesa israeliano Yaalon, non era riuscito a chiudere i colloqui con un risultato positivo; il tavolo era saltato, anche per colpa dell’avvio dei negoziati con Teheran. E poi.

Here we are, con una guerra in corso e con Israele di nuovo piedi a terra nella Striscia di Gaza. E con gli Stati Uniti combattuti e controversi, tra le critiche all’eccessiva violenza interventista israeliana, e il diritto di difesa, e i soldi in più per Iron Dome, e i civili uccisi.

Non si può dire che i legami si stanno sfilacciando – quanto meno per il peso di quel sistema di relazioni interno agli Stati Uniti e incrostato sui muri di Washington. Il partenariato strategico sarà ancora centrale per molto tempo. Ma forse qualcosa sta cambiando: esempio ciò che è successo a luglio, quando non è passato un disegno di legge per l’inserimento di Israele nel Visa Waiver Program – l’esenzione dal visto. La Casa Bianca aveva fatto pressioni affinché l’effetto fosse reciproco e senza distinzioni: la retromarcia è arrivata per le limitazioni imposte da Tel Aviv sui cittadini arabi-americani. E tutto si è fermato.

@danemblog 

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