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Che fare con gli ostaggi?

Qualche tempo fa, il New York Times ha pubblicato un articolo di Rukmini Callimachi in cui si spiega molto approfonditamente il comportamento di diversi paesi, davanti al rapimento di un proprio connazionale.

Alla luce dell’uccisione del giornalista James Foley, rapito in Siria nel 2012 e decapitato in un video da un soldato dello Stato Islamico, la questione diventa di primaria importanza.

Per Foley non è stato pagato nessuno riscatto: ovviamente il riferimento è ai due anni fin qui trascorsi, perché nei giorni precedenti l’uccisione, non ci sarebbe stata nessuna cifra congrua a bloccare l’esecuzione. Il valore che il Califfo voleva dare a quella morte, andava oltre quello economico: c’era la sfida all’Occidente, il monito per fermare le azioni in Iraq, la volontà di “legittimarsi” a livello internazionale come nemico pubblico numero uno.

Nei due anni che Foley – come altri – ha trascorso in prigionia, gli Stati Uniti, almeno formalmente, non hanno mai parlato di riscatto. È la politica americana del “non si tratta con i terroristi”, che ha trovato molte infrazioni ed eccezioni più o meno segrete, ma che sul fatto degli ostaggi mantiene una linea abbastanza pura.

La motivazione non è la crudeltà o il menefreghismo versi i propri connazionali, come ovvio, ma dietro alle scelte degli Usa (e pure UK) c’è una strategia. Pagare il riscatto, trattare, darebbe adito a successivi rapimenti: come dire, se i terroristi vedono che paghi, allora utilizzeranno i rapimento come “un prelievo da bancomat”. Un ostaggio, uguale soldi. Contrariamente, se i terroristi vedono che sequestrare un americano (o un inglese) non è un’attività economicamente proficua, dovrebbero essere più restii a farlo. In più, molto spesso questi stati inviano squadre speciali a liberare i propri concittadini, anche all’interno di territori rischiosi. Altro deterrente al rapimento, dovrebbe essere la possibilità dell’epilogo violento, dopo un blitz delle SOF.

Così è stato tentato di fare anche nel caso di Foley: all’inizio di luglio un commandos della Delta Force – con supporto aereo al seguito – è stato spedito in Siria nella area petrolifera di al-AKershi (nei pressi di Raqqa) che lo Stato Islamico ha trasformato in una sorta di centro di addestramento. Secondo le informazioni raccolte dall’intelligence, nella base sarebbero stati detenuti diversi ostaggi – non era chiaro se tra questi ci fosse anche Foley, ma ci sono ancora un’altra ventina di cittadini Usa rapiti dagli jihadisti. Il blitz c’è stato, è andato a buon fine – diversi uomini del Califfo sono rimasti sul terreno, mentre c’è stato solo un soldato americano ferito lievemente – ma gli ostaggi non c’erano.

Errore di comunicazione, spifferate o pura coincidenza, non è chiaro, fatto sta che le forze speciali se ne sono tornate a mani vuote. Tuttavia la Casa Bianca ha scelto di diramare i dettagli dell’operazione – forse troppi, a detta di qualcuno, tanto che potrebbero esporre i piani di azione delle SOF e far perdere il fondamentale effetto sorpresa. Ma dietro c’è una ragione ben precisa: trasmettere ai rapitori, di ogni genere e tipo, che se vengono presi cittadini americani in ostaggio, non solo non si hanno soldi in cambio, ma si rischia di morire ammazzati dalle forze speciali.

In realtà anche gli Stati Uniti non sono dure e puri come vorrebbero far credere, e si sono trovati in diverse occasioni a trattare per il rilascio dei propri uomini: eclatante, qualche mese, il cambio dei cinque capi talebani di Guantanamo con il soldato Bowe Bergdahl. Ma non solo, molto spesso l’America ha utilizzato dei mediatori, nazioni che si sono fatte da ambasciatori nelle trattative evitando l’esposizione diretta di Washington.

Queste nazioni, molto spesso, sono europee: c’è anche l’Italia in mezzo. Secondo fonti anonime citate in un articolo del Foglio, il ruolo di mediazione di Roma, è stato spesso primario: «Stati Uniti e Gran Bretagna si sono appoggiati alla rete italiana in più occasioni, delegando le operazioni, come dimostrano le quasi trenta lettere di ringraziamento inviate da altrettanti paesi consapevoli del fatto che fossero stati pagati i riscatti attraverso “fondi speciali” finiti sotto la voce aiuti umanitari o condivisione di strutture e operazioni d’intelligence».

Questa è la prassi: non si può indicare la voce “riscatto” nei bilanci: dopo il 9/11, c’è una risoluzione delle Nazioni Uniti che vieta di dare soldi a terroristi rapitori, e recentemente c’è stato anche un accordo tra i paesi del G8 che si sono impegnati a fermare questo circolo vizioso che finisce per diventare un affare proficuo per il mondo del terrore.

Si sa che gli impegni formali sono fatti per essere violati, se possibile segretamente. Così l’Italia ha avuto un ruolo chiave – riconosciuto ufficialmente – anche nella mediazione per la liberazione dei giornalisti Florence Aubenas, George Malbrunot e Christian Chesnot, rapiti in Iraq nel 2004. E dire che secondo il NyTimes, la Francia è il paese che paga più spesso i riscatti ai terroristi.

Se essere rapiti con un passaporto inglese o americano, spesso può significare andare incontro alla morte, avere una carta francese significa essere una valida merce di scambio – e attenzioni connesse. La Francia paga, e così fanno austriaci, spagnoli e svizzeri. Anche l’Italia è tra i paesi che non si tira indietro davanti ai riscatti da pagare ai terroristi: sembra che tutti i maggiori casi degli ultimi tempi siano stati risolti da borsoni di monete consegnate ai rapitori dagli uomini dei servizi segreti.

Il Wall Street Journal, che ha scritto un altro articolo sul business degli ostaggi, ha provato a contattare le varie sedi diplomatiche, che hanno tutte prontamente – e ovviamente – smentito ogni genere di coinvolgimento.

Ma i dati ci sono. A quanto pubblicato dalla studio del NYTimes, i rapimenti sono diventati il core-business di al-Qaeda e dei gruppi jihadisti (collegati e non). Sarebbero 125 i milioni di dollari incassati dalla Base dal 2008 ad oggi: di questi, 66 milioni versati durante l’ultimo anno. Segno evidente che l’attività dei rapimenti si sta incrementando, a fronte di un pagamento quasi sicuro. L’Aqap, la cellula qaedista che opera nella Penisola Araba ed è centrata nello Yemen, ha guadagnato da sola quasi 30 milioni di dollari: oltre 20 milioni sono stati pagati da Qatar e Oman tra il 2012 e il 2013.

Quello degli ostaggi è un dilemma vecchio quanto il mondo. Che fare?

Trattare è complicato, e l’Italia – paese che ha convissuto con il terrorismo interno – lo sa bene. Ma d’altronde il peso politico di un ostaggio morto è enorme. Uno stato che vede morire un proprio cittadino sotto la falce dei terroristi, rischia di cadere in crisi di identità, una crisi di affidabilità e di capacità risolutive dell’esecutivo, che mette a rischio il feedback tra Stato e cittadini, una crisi di coscienza collettiva – “Si poteva fare di più”. Molti Paesi scelgono allora la soluzione più facile: il pagamento. Linea che però, dati alla mano, fa soltanto il gioco dei terroristi.

@danemblog   

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