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Vi spiego perché Napolitano caldeggia Violante alla Corte Costituzionale

Il sospetto non è naturalmente piaciuto al Quirinale, dove vengono negate propensioni di natura personale, ma molti hanno visto soprattutto la volontà di soccorrere la candidatura di Luciano Violante nella protesta alta e forte di Giorgio Napolitano contro le “immotivate preclusioni” e le “settarie pretese” che avevano impedito già per undici volte l’elezione parlamentare dei due giudici costituzionali mancanti al plenum della Consulta. Problemi analoghi esistono anche per il completamento del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura.

Il presidente della Repubblica non ha mai nascosto la stima che ha di Violante, da lui chiamato l’anno scorso fra i “saggi” incaricati di predisporre il programma di riforme del governo delle “larghe intese” che sarebbe stato poi guidato da Enrico Letta. E’ una stima prodotta dal comune passato politico, dalla comune esperienza di presidente della Camera e dall’appoggio umano e politico pubblicamente dato da Violante a Napolitano in occasione dello scontro tra il Quirinale e la Procura della Repubblica di Palermo, in riferimento alle indagini e al processo sulle presunte trattative di più di vent’anni fa fra lo Stato e la mafia. Uno scontro poi risolto dalla Corte Costituzionale a favore di Napolitano e delle sue prerogative, disattese con una gestione avventata delle “casuali” intercettazioni nelle quali il capo dello Stato era finito conversando telefonicamente con l’indagato e infine imputato Nicola Mancino, ex ministro democristiano dell’interno, ex presidente del Senato e suo ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura.

Violante non esitò, in quell’occasione, a dare torto ai magistrati dismettendo quel poco che ancora rimaneva della sua immagine di capo del “partito dei giudici”, già compromessa da frequenti critiche al protagonismo dei suoi ex colleghi di toga, da una sostanziale dissociazione dal processo per mafia a Giulio Andreotti, alla cui gestazione aveva pur contribuito come presidente della commissione parlamentare antimafia accreditando come testimone pentito Tommaso Buscetta, e infine da una proposta di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura finalizzata, fra l’altro, ad affidare ad un organismo più sicuramente neutro i procedimenti disciplinari. Erano ormai lontani, e superati, i tempi in cui Violante si era guadagnato il paragone sarcastico dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga a Vishinsky, lo storico e sinistro braccio giudiziario di Stalin nelle purghe sovietiche. Egli era ormai diventato, come lo dipinge Marco Travaglio sul Fatto, solo “il participio presente” del verbo violare.

Ma neppure il soccorso di Napolitano, pur nel contesto di una più generale protesta contro i ritardi parlamentari, è riuscito a sbloccare la corsa di Violante. Che nella votazione delle Camere congiunte seguita all’intervento ufficiale del capo dello Stato, la dodicesima della serie, ha addirittura perduto punti, scendendo da 526 a 518 voti, ancora più lontani quindi dai 570 necessari. Gli è rimasta solo la magra consolazione di avere sorpassato il co-candidato di Forza Italia Donato Bruno, sceso da 544 a 511 voti.

I problemi di Violante, complicati anche dai malumori tra i berlusconiani per i buoni rapporti del loro leader con Matteo Renzi, sono chiaramente tutti all’interno del suo partito, dove il giustizialismo, inteso come rapporto preferenziale con la parte della magistratura più militante, è duro a morire. Non si perdona insomma a Violante di avere fatto da battistrada alla “svolta garantista” appena rivendicata in Parlamento dal nuovo segretario del Pd e presidente del Consiglio nei confronti delle toghe. Per la parte renitente del Pd l’intervento di Napolitano è stato sotto certi aspetti controproducente. E ha innescato la tentazione – emersa dal tredicesimo scrutinio anch’esso a vuoto – a un triste primato: il superamento delle 14 votazioni e dei 18 mesi occorsi al Parlamento fra il 2001 e il 2002 per l’elezione di due giudici costituzionali, dopo la scadenza dei mandati di Cesare Mirabelli e Francesco Guizzi. Che avevano concluso la loro esperienza alla Consulta come presidente e vice presidente, al pari dei due giudici – Gaetano Silvestri e Luigi Mazzella – scaduti nello scorso mese di giugno. Troppo poco, evidentemente, è il tempo trascorso da allora per i gusti e le abitudini del nostro Parlamento.

Francesco Damato

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