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Il peso delle lobby mediorientali in USA: il Bahrein

Ḥamad bin ʿĪsā Āl Khalīfa, re (dal 2002, prima emiro) del Bahrein ha annunciato che è disposto ad aiutare ed accogliere 200 delle famiglie cristiane fuggite da Mosul. Non è nuovo a questo genere di aperture – così come non lo è l’Arabia Saudita, sponsor principale della monarchia sunnita che regge il regno del piccolo arcipelago nel Golfo Persico.

La decisione è stata annunciata quasi trionfalmente dal comboniano Camillo Ballin (ha parlato di dimostrazione di «generosità nei confronti dei cristiani»), vicario apostolico nell’Arabia Settentrionale. Un gesto di apertura certo, magari frutto dell’incontro del re con Papa Francesco (il 19 maggio, in Vaticano), ma anche un altro passo nel tentativo di mostrare agli Stati Uniti – attivi e operanti in Iraq contro il Califfato, che ha causato quei profughi – la propria affidabilità e il proprio impegno per la stabilità della regione. Sul tavolo, convincere definitivamente gli americani che non c’è bisogno di cercare un’altra “casa” per la Quinta Flotta – attualmente basata nella capitale Manama. Sforzo di fondo, dietro a tutte le operazioni di lobbying avviate dal regno a Washington. Ospitare la Fifth Fleet dà prestigio internazionale, sicurezza e appoggio militare, ma anche proventi diretti, legati ai 7 mila uomini operanti (più mille civili) nella base.

Fanno da scenario le enormi incoerenze del Bahrein sulla questione dei diritti umani. L’innesco è sempre lo stesso da tre anni: il “San Valentino di sangue”, la durissima repressione che ha portato dolore, carcere e morte, a chi chiedeva diritti, libertà e uguaglianza. Partita dal sit-in pacifico (di civili sciiti, maggioranza del paese, governato invece dai sunniti) di protesta alla rotonda della Perla. Con le manifestazioni ancora vive, non molto è cambiato dal 2011: nessuna concessione a chi ha osato sfidare il re, anzi la risposta è stata il carcere, le violenze e le torture (anche per i minorenni), i raid nelle case e le persecuzioni a mezzo stampa. In queste ore, Abdulhadi Al-Khawaja, condannato nel 2011 all’ergastolo – considerato da Amnesty International un prigioniero di coscienza – ha cominciato un nuovo sciopero della fame dalla galera. E al fotreporter Ahmed Humaidan sono stati confermati i dieci anni di carcere (duro), per aver ripreso immagini degli scontri alla stazione di polizia di Sitra nell’aprile del 2012 – con l’accusa formale di aver preso parte agli scontri.

La situazione politica del paese è critica: le associazioni internazionali denunciano continuamente la feroce repressione governativa verso gli oppositori e pressano la comunità sulla mancanza del rispetto dei diritti umani nel regno. Anche per questo, dall’inizio delle proteste la spesa per le politiche di relazioni pubbliche tra le stanze di Washington è salita alle stelle: gli “zero” dollari investiti fino al 2009, si sono trasformati in 1,15 milioni (dato 2013).

Strategia che sembra, per il momento, funzionare: anche per il buon lavoro della DLA Piper, assunta dal Bahrein con lo scopo di mostrare i passi fatti verso le riforme da re Hamad e per sottolineare l’impegno nella lotta al terrorismo regionale.

In un rapporto del Congressional Reasearch Service è riportato il principale dei successi delle operazioni di pr intraprese dal governo di Manama: l’Amministrazione statunitense non ha sostenuto l’estromissione della famiglia reale, che governa il paese dal 1783 – differentemente da quanto è avvenuto con le rivolte della Primavera Araba in Egitto, Libia e Siria. Ma anzi, nel report si afferma che l’uso della forza è stato comunque limitato e che è stato intrapreso il processo delle riforme. Ci sono più interessi che convinzione, dietro la linea americana.

La Naval Support Activity Bahrein, ha un’importanza fondamentale che deve essere tenuta in primo piano. Interesse strategico di primissimo livello per gli USA, che devono far risaltare tutto quel che c’è di buono a Manama, possibilmente nascondendo – o ignorando – il marcio.

Tuttavia dall’inizio delle proteste, la Casa Bianca ha anche deciso di ridurre del 50 per cento i finanziamenti militari – passati da 15 a 7,5 milioni di euro. Ad imbarazzare gli Stati Uniti, le tante foto alle bombolette di lacrimogeni di produzione e fornitura americana, sparate dalla polizia per disperdere i manifestanti con un’intensità forse mai vista prima in questi anni.

Altra importante attività su cui sono concentrati i lobbisti del Bahrein, sono gli accordi di libero scambio, che sono stati messi in sordina dal dipartimento del Lavoro, quando ha segnalato che il regno non ha rispettato gli impegni presi sui diritti dei lavoratori, propedeutici all’apertura dei commerci. Dietro c’è la denuncia dell’AFL-CIO, la più grande centrale sindacale americana, che ha denunciato come il trattamento dei lavoratori – soprattutto asiatici – migrati nel paese del Golfo per la forte richiesta di manodopera, sia al di sotto di “standard umani” e come molti di loro siano stati licenziati solamente per aver partecipato alle manifestazioni contro il re.

Altro sussulto agli accordi (e al feeling tra i due stati), è stato dato in luglio, quando il Bahrein ha deciso di espellere l’inviato per i diritti civili del dipartimento di Stato americano, Tom Malinowski. Azione che secondo gli Esteri statunitensi è «molto preoccupante», soprattutto se letta nel sostanziale rapporto di partnership tra i due paesi.

Ma le relazioni restano forti, sulla scorta della durata dei legami e dell’effettiva sufficiente stabilità garantita finora dal paese nei confronti del terrorismo.

Il Bahrein è un luogo strategico, s’è detto: considerato tale da congressisti e consulenti della Casa Bianca. In maggio, davanti alla richiesta, avanzata da alcuni uomini del Congresso, di elaborare un piano per lo spostamento della Quinta Flotta nel caso in cui “scendesse il caos” nel paese, il dipartimento della Difesa ha risposto con una nuova spinta all’investimento da 580 milioni di dollari per l’edilizia militare, che raddoppierebbe le dimensioni della base stessa. Come a dire che non ci sarà “il caos”: forse anche perché ci saranno altre toste repressioni, che gli Stati Uniti faranno in modo di mitigare – almeno nella propria formale interpretazione e analisi.

@danemblog   

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