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Che cosa succede in Emilia Romagna tra Pd e Procura. Parla Massimo Bordin

La tempesta giudiziaria che ha investito il Partito democratico in Emilia-Romagna attorno a ipotesi di peculato nella gestione dei fondi pubblici attribuiti ai gruppi consiliari ha messo in luce una diversa reazione politica da parte dei suoi esponenti regionali di punta.

Mentre il renziano della prima ora Matteo Richetti ha scelto di ritirarsi dalle consultazioni primarie per l’individuazione del candidato governatore progressista, il bersaniano Stefano Bonaccini – traghettato con entusiasmo tra i supporter dell’ex sindaco di Firenze – ha deciso di restare in gara fermamente intenzionato a “fare chiarezza con la magistratura”.

Per capire le ragioni politico-culturali all’origine dei due comportamenti Formiche.net ha interpellato Massimo Bordin, giornalista e voce storica di Radio Radicale soprattutto per la rassegna informativa del mattino “Stampa e Regime”, oltre che osservatore di questioni giudiziarie.

Nella differente reazione di Richetti e Bonaccini all’inchiesta della Procura di Bologna vi è l’impronta delle rispettive aree politiche di provenienza?

La situazione è molto più complicata. La tattica scelta dai due esponenti del PD può essere determinata da un’aspettativa diversa rispetto alle accuse giudiziarie. È vero che l’ala post-comunista del Nazareno – la “ditta” cara a Pier Luigi Bersani – ha sempre tenuto, fin dai tempi di Mani Pulite con Massimo D’Alema capogruppo del PDS a Montecitorio, un atteggiamento più prudente verso l’azione delle toghe rispetto all’adesione dell’allora leader Achille Occhetto. Ma non ha mai chiuso le porte alle iniziative giudiziarie. Si è distinta nei toni dalle componenti giustizialiste del partito, e mai in modo aperto e istituzionale.

E Matteo Renzi?

L’attuale numero uno del Partito democratico presenta un piglio para-giustizialista parte di una coreografia rottamatoria. Ma è lui ad aver promosso la candidatura alle elezioni europee del giurista garantista Giovanni Fiandaca, critico acuto del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Come vede, si tratta di due anime intrecciate e intercambiabili.

Nutre dubbi sui tempi dell’inchiesta bolognese?

La Procura del capoluogo emiliano ha tenuto aperta l’indagine troppo a lungo, alimentando dicerie e pettegolezzi. Ma non parlerei di “giustizia a orologeria”. L’inchiesta non è chiusa, e sono stati gli stessi politici ad aver reso pubblica la loro iscrizione nel registro degli indagati, rompendo il riserbo investigativo. La vera anomalia è un’altra.

Quale?

Le leggi “ingorde” che le assemblee regionali si sono votate quasi all’unanimità per saziare gli appetiti degli apparati partitici hanno consegnato alla magistratura un’arma formidabile per invadere la sfera delle iniziative politiche. Un vero e proprio boomerang auto-ricattatorio.

L’iscrizione di Richetti nel registro degli indagati è un segnale lanciato a Matteo Renzi per la timida riforma della giustizia non gradita all’Anm?

No. È una partita che si gioca tutta in Emilia-Romagna. Si tratta di un braccio di ferro tra Procura bolognese ed establishment politico della sinistra. Ma non ritengo possa avere valenza nazionale.

Il PD riuscirà a risolvere la contraddizione tra un giustizialismo populistico caro alla militanza e un orizzonte garantista appena accennato?

Non lo so. So che i problemi del pianeta giustizia non verranno mai risolti se a fare la riforma della macchina e dell’ordinamento giudiziari saranno i fautori del giustizialismo. Ricordo che Gioacchino Murat, brillante generale napoleonico e poi re di Napoli, fu fucilato a causa di una legge che aveva voluto lui stesso. Tanto per rimarcare quanto il “giustizialismo rottamatorio” riesca a divorare i suoi fautori.

Siamo giunti all’epilogo del “modello emiliano” post-comunista?

Quel modello era già tramontato nel 1999 con l’elezione di Giorgio Guazzaloca a primo cittadino di Bologna. E poi con i mandati disastrosi di Sergio Cofferati e Flavio Delbono.

Gianfranco Pasquino ritiene i consiglieri regionali non adatti a ricoprire il ruolo di senatori come previsto nella riforma Renzi-Boschi.

Condivido la sua riflessione. È autolesionista promuovere al rango di senatori – avendo peraltro abrogato de facto uno dei rami del Parlamento – i rappresentanti di un pezzo discusso e discutibile del ceto politico. Un discredito ampiamente prevedibile, visto che in quasi tutta Italia erano state aperte inchieste sull’utilizzo delle enormi risorse concesse ai gruppi partitici regionali.

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