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Bonus, tfr e fondi pensione. Tutte le astruse renzate del governo Renzi

Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi (e coordinatore del “brain trust” di Palazzi Chigi, quelli che se la dicono e se la cantano da soli) in un’intervista al “Corriere della Sera” di ieri ha cercato di spiegare come la misura di decontribuzione per un triennio a favore dei nuovi assunti a tempo indeterminato nel 2015, dovrebbe servire a creare – come ha detto anche Padoan (Schioppan?) – 800mila assunzioni (al lordo ovviamente di quelle che ci sarebbero state normalmente).

Per quanto non sia facile, proviamo a seguirne il ragionamento. Innanzi tutto, ci pare che Gutgeld faccia confusione tra i dati delle comunicazioni obbligatorie e quelli dei nuovi posti di lavoro. Il fatto che ogni anno si rinnovino circa 10milioni di contratti non significa che si tratti di nuovo lavoro, anche per quanto riguarda le assunzioni a tempo indeterminato (pure durante la crisi tante centinaia di migliaia persone cambiano lavoro, passando da un rapporto stabile ad un altro).
Poi ci sono altri dati di fatto, ricavabili da precedenti esperienze, che stanno a dimostrare come quasi mai gli incentivi economici riescono a compensare i disincentivi normativi. E qui preveniamo un’obiezione che può esserci avanzata dal nostro interlocutore: il governo intende – una volta approvato il Jobs act Poletti 2.0 e i decreti delegati – rendere meno rigido il rapporto di lavoro in uscita, rimuovendo così quei vincoli che scoraggiavano le assunzioni stabili. Sarà. Ma per adesso la soluzione prospettata per la riforma dell’articolo 18 è ancora racchiusa nella mente di Renzi; ed è molto probabile che la questione si risolva nel 2015 ormai inoltrato.

Ma poi – detto tra di noi – dove sta scritto che le aziende non assumono solo per effetto degli elevati oneri sociali che dovrebbero sostenere? Non è la prima volta che si promuovono incentivi per indurre le aziende ad assumere a tempo indeterminato. Lo hanno fatto, più o meno, tutti i Governi. Per limitarsi agli ultimi, lo hanno fatto gli esecutivi presieduti da Mario Monti e da Enrico Letta. Nel primo caso, le analisi compiute hanno indotto a ritenere che, in realtà, si sono agevolate assunzioni che sarebbero avvenute comunque. Nel secondo caso, si tratta di misure contenute nel “Pacchetto Giovannini” del 2013. In quel caso si trattava di un bonus di 600 euro mensili per diciotto mensilità, il cui ammontare complessivo non è molto lontano dal limite dei 6,2mila euro per il beneficio fiscale indicato nel disegno di legge di stabilità (che ora dovrebbe essere portato a poco più di 8mila euro a sentire Gutgeld).

Eppure la misura del 2013 – programmata per 100mila nuove assunzioni in un biennio – si è afflosciata non appena è entrato in vigore il decreto Poletti sui contratti a termine. Per quale motivo, pur se riveduta e corretta, dovrebbe funzionare adesso? L’occupazione non si crea e, soprattutto, non si conserva, assumendosi lo Stato una parte considerevole del costo del lavoro, ma attraverso una crescita reale dell’economia, che il disegno di legge di stabilità non garantisce, limitandosi ad una redistribuzione clientelare delle risorse reperite raschiando il fondo del barile.

Persino il piano Garanzia Giovani, finanziato con 1,5 miliardi, non riesce a decollare. Il nostro “traduttor dei traduttor di Omero”, nella sua intervista, non ha affrontato il tema del tfr e della tassazione del risparmio previdenziale, su cui ha espresso, in un dibattito televisivo, la sua draconiana opinione sostenendo che le rendite devono essere tassate tutte allo stesso modo. Affidiamoci, per adesso, al buon senso degli italiani, i quali sapranno compiere le valutazioni del caso, includendovi la conseguenza del maggior carico fiscale (almeno 5 punti in più di aliquota) che la monetizzazione del tfr comporterebbe.
Stendiamo un velo pietoso sul marchingegno escogitato di far liquidare, nel silenzio dell’Abi, il tfr alle banche, salvo consentire loro di rivalersi, in caso di inadempienza dei datori, su di un apposito fondo di garanzia presso l’Inps. Ma perché aggiungere al danno della diversa allocazione dei ratei di trattamento di fine rapporto (i “liberali de noantri” imporranno che la scelta di intascare il conquibus resti ferma per tre anni), anche la beffa criminale di un maggior prelievo fiscale?

L’aliquota sui rendimenti dovrebbe passare dall’11,5% ad almeno il 20%. Il che determinerà un effetto meccanico e matematico: la riduzione corrispondente del montante contributivo individuale su cui saranno calcolate, su base attuariale, le pensioni complementari di domani. In sostanza, il Governo ha deciso di tagliare dell’8,4% la futura pensione privata di 6,2 milioni di italiani aderenti ad una forma di previdenza a capitalizzazione.

Diverso, ma egualmente abominevole, il caso delle Casse privatizzate dei liberi professionisti, per le quali l’incremento della tassazione dei rendimenti dei patrimoni mobiliari corrisponde ad un proporzionale abbattimento delle risorse accantonate a garanzia del pagamento delle pensioni. Insomma, ai tecnici del premier è proprio difficile far comprendere il ruolo del risparmio previdenziale dal momento che hanno deciso di abbatterlo come se fosse un cavallo azzoppato in una storia raccontata da un fumetto di Tex Willer.

Infine, arriva il bonus bebè che dovrebbe essere erogato alle madri titolari di un reddito fino a 90mila euro l’anno. Troppa grazia. Meglio meno, ma meglio. Magari un tetto più basso, ma interventi più organici per quanto riguarda la conciliazione e il welfare aziendale ad essa finalizzato.

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