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Dalla Domus Pacis alla Leopolda Blu

Avevo preparato un intervento con l’augurio che l’incontro della Domus Pacis di venerdì 10 ottobre potesse seguire due linee: la prima tracciata sull’insegnamento di Aldo Moro, secondo cui “è meglio sbagliare tutti insieme che avere ragione da soli”; la seconda che noi, verso e o oltre i settanta, ci mettessimo in seconda o terza fila per favorire una nuova classe dirigente.

Entrato in un auditorium che conteneva meno di un quarto dei 1200 anche da Formiche.net annunciati, anziché constatare l’affermazione del principio secondo cui “ tutto ciò che va nella direzione dell’unità dei popolari è un bene, tutto ciò che serve a conservare le fratture e le divisioni è un male”, abbiamo sentito interventi orientati più alla divisione che alla condivisione secondo il solito vezzo italico per cui “tutti vogliono coordinare e nessuno vuol farsi coordinare”. E del mio intervento ho pensato che era meglio non se ne facesse nulla, considerato che tutto era stato programmato senza possibilità di voci diverse da quelle predisposte dal copione.

E al posto dei “vino nuovo in otri nuovi” ci siamo ritrovati una platea affollata di “ever green”; ex parlamentari in pensione alla ricerca di una nuova assai improbabile ricollocazione, intervallati da sconosciuti docenti di varie discipline e alcune gentili signore incaricate di rappresentare qualche illustre più che giustificato assente.

Il convegno dall’ambizioso titolo “Verso il partito della gente riprendiamoci l’Italia”, dopo gli interventi di un accalorato Ivo Tarolli – quello che a gennaio di quest’anno aveva scientemente fatto fallire la nostra proposta di patto federativo verso l’unità dei popolari e dei democratici cristiani, che era stata la conclusione della tre giorni al convento di Sant’Anselmo degli amici dell’associazione Democrazia Cristiana, con il consenso di Publio Fiori (Rinascita Popolare) e di Mario Mauro (Popolari per l’Italia) – e quelli di un onesto figlio dell’Umbria agricola, Sergio Marini, e dell’immarcescibile Mario Tassone, si è lentamente sciolto nel fuggi fuggi generale di una platea sfiduciata e disillusa.

Doveva essere la kermesse del lancio della nuova leadership di Sergio Marini, già presidente della Coldiretti nazionale, ma, nonostante il grande impegno dell’officiante incaricato, l’ex sen. Tarolli di Trento, alla prova del nove, Marini si è rivelato una personalità molto al di sotto delle ambizioni che quel ruolo dovrebbe comportare.

Ivo Tarolli, si è limitato a gridare, letteralmente a gridare, che “non siamo irrilevanti, dobbiamo solo essere organizzati”, “dobbiamo riprendere le nostre responsabilità”, “uscire dal sottoscala” puntare sulle centralità di tre motori: famiglia, impresa e comunità.

Ha continuato denunciando la dominanza assoluta del partito del premier, sottolineando che ”l’Europa ha fallito, Berlusconi ha fallito e Renzi sta fallendo, mentre l’Italia sprofonda”.

Un po’ poco come analisi politica, cui è seguita la perorazione a costruire “uno strumento politico nuovo, un partito programmatico e di scopo, che nasca dal territorio e guidato da una nuova classe dirigente”.

Lanciata l’idea di una nuova organizzazione (quale?) con una nuova forte identità di cui non si è data traccia (sembrava di leggere l’ultimo libro del dante causa Corrado Passera, assente seppur annunciato, il quale, almeno al convegno di Matera dei Popolari per l’Italia aveva avuto l’accortezza nel suo video messaggio di fare riferimento ai comuni valori popolari sturziani), Tarolli, convinto che si tratta di costruire non una “piccola parrocchia, ma una grande Chiesa” ha lanciato la nuova leadership di Sergio Marini.

Si sperava in una sua vincente prova del fuoco in una platea affollatissima, ma si sa, lasciata la presidenza della Coldiretti, tira tutt’altra musica e la Coldiretti di oggi non è certamente l’antica e fedele bonomiana artefice di larga parte delle fortune democratico cristiane.

Sergio Marini, accompagnato da alcune e poche fedeli truppe del mondo produttivo e della cooperazione agricola, ha svolto un debolissimo intervento, molto al di sotto delle aspettative che si richiedono a una nuova generazione che intenda non solo porsi in alternativa al renzismo rampante, ma, soprattutto alla guida di un progetto ambizioso come quello di: “riprendersi l’Italia attraverso il nuovo partito della gente”.

Debole la sua analisi, che si riduce alla constatazione che nel Parlamento non esistono più uomini, partiti e formule politiche in grado di risolvere i problemi dell’Italia e alla necessità di combattere quello che lui definisce “il partito unico del Parlamento”, con accenti di un  linguaggio rurale casereccio, più simile al populismo dai tratti qualunquistici che a quelli di un leader carismatico e popolare di estrazione DC.

Sostenere come ricette il no al fiscal compact, senza nemmeno motivarne le sottili ragioni giuridiche che da molto tempo il prof Guarino ci indica, facendo semplicemente ricorso al nostro “orgoglio nazionale” da recuperare; investire la decina di miliardi così recuperati nel turismo, arte, cultura e agro–alimentare, e concludere con il generico appello alla volontà di cambiare noi stessi rivolto a coloro che “se la sentono di venire con noi”, onestamente è una proposta assai riduttiva per un nuovo partito che assuma l’ambizione di riprendersi l’Italia.

Dopo Mario Tassone, sempre ammirevole nella sua difesa dei valori costituzionali e nel ricordo della sua antica appartenenza morotea, unica voce che ha ricordato la nostra naturale scelta di campo nel PPE, anche se, ha aggiunto, in Italia i termini tradizionali di destra e di sinistra sono ormai superati, il parterre si è lentamente liquefatto e i commenti di molti che si alternavano tra la disillusione di una giornata perduta e la dolorosa constatazione che, forse, “la maledizione di Moro” dal carcere delle BR continua a pendere sulla testa dei reduci democratico cristiani, il convegno di fatto si è concluso.

Noi che al generico e falso riferimento alla gente, abbiamo riproposto con la teoria dei quattro stati della società italiana, la ragione stessa dell’impegno politico dei cattolici e dei laici e riformisti nella storia della Repubblica, ossia la necessità di dare rappresentanza al terzo stato e di ricomporre gli interessi e i valori tra i ceti medi e le classi popolari, mentre ci auguriamo che anche dalla Domus Pacis possa venire un contributo per l’unità dei popolari, guardiamo con molta attesa a ciò che potrà uscire dal prossimo appuntamento della Leopolda Blu di Milano, alla quale parteciperemo da popolari e per l’unità di tutti i popolari, liberali e riformisti italiani inseriti a pieno titolo nel Partito Popolare Europeo.

Ettore Bonalberti
www.insiemeweb.net
www.don-chisciotte.net

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