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Ecco perché tassare i giganti del Web è cosa buona e giusta

È corretto e proficuo dal punto di vista giuridico, etico, economico e sociale tassare in modo rilevante i colossi della Rete operanti in Italia? E bisogna farlo per tutti gli introiti commerciali?

Le ragioni di un confronto

L’interrogativo, legato al tema dell’effettiva sovranità degli Stati di un’Europa caratterizzata dall’eterogeneità competitiva dei regimi fiscali, ha trovato una risposta quasi univoca nel corso del convegno “Servizi digitali ed e-commerce: profili fiscali e regole del mercato”.

L’iniziativa, promossa a Roma dall’Istituto per lo studio dell’innovazione nei media, economia, società, istituzioni presso la Sala convegno del Monte dei Paschi di Siena a Roma, ha visto politici, giuristi, esperti di diritto tributario, rappresentanti di grandi aziende delle telecomunicazioni e delle multinazionali del Web, confrontarsi vivacemente su un argomento nevralgico nella rivoluzione digitale del terzo millennio.

Un paradosso privo di senso

Fenomeno che ha prodotto un cambiamento vorticoso nel sistema di vita occidentale, facilitando la mobilità delle attività commerciali su scala globale e la messa in atto di pratiche di vantaggio fiscale attorno al carattere immateriale dei beni e servizi in gioco.

È sempre più urgente dunque l’esigenza di ripensare l’attuale regime tributario europeo, per garantire a tutte le imprese regole di tassazione neutrali, semplificate e coordinate.

Altrimenti si perpetuerà il paradosso per cui l’Iva in Italia vale il 21 per cento sugli e-book e il 4 sui libri cartacei. Ma un cambiamento del regime fiscale del Vecchio Continente richiede l’accordo unanime dei 28 paesi membri dell’Ue. Traguardo attualmente impensabile.

La Web Tax

Un passaggio fondamentale in tale panorama è costituito dalla proposta legislativa, riassunta con il nome di “Web Tax”, formulata nel novembre 2013 dal parlamentare del Partito democratico e presidente della Commissione Bilancio della Camera dei deputati Francesco Boccia.

Progetto che, in coerenza con le indicazioni comunitarie, punta a tassare i profitti dei colossi della Rete derivanti dalla pubblicità on line sul territorio italiano. La norma coinvolgerebbe tutte le multinazionali che operano nel nostro paese, per far pagare loro i tributi in misura proporzionale al fatturato. Per cui un’azienda che fattura 600 miliardi e in Italia ne ricava 30 pari al 5 per cento dovrà all’Erario il 5 per cento di imposte.

Colmare il divario tra Ue e Usa

L’iniziativa, bloccata per ora dal premier Matteo Renzi, ha gettato luce sulla capacità di Google e degli altri giganti telematici di pagare meno tasse possibile con le leggi in vigore. E sulle divergenze profonde tra la regolamentazione stringente dell’Unione Europea e l’ampia libertà di agire assicurata negli Stati Uniti.

Per colmare un divario così palese Laura Bononcini, Head of Public Policy di Facebook, prospetta un complesso di risposte globali su più fronti: riallineare i regimi tributari tassando il valore nel luogo ove viene venduto il prodotto; garantire certezza, trasparenza e prevedibilità del tipo di imposizione; applicare in modo uniforme le tasse in ogni comparto produttivo.

Un privilegio clamoroso

Priorità cui Michelangelo Suigo, direttore Public Affairs di Vodafone Italia, aggiunge la realizzazione di una rete infrastrutturale a banda larga adeguata e di avanguardia.

Altro obiettivo fondamentale ai suoi occhi è la lotta contro la formazione di monopoli e duopoli nel mercato delle comunicazioni sulle autostrade telematiche. E l’affermazione di regole comuni per tutti gli operatori, “liberi di puntare su segmenti di consumatori attraverso piattaforme multimediali di contenuti audio-visivi”.

Il che vuol dire – rimarca il manager – porre fine al regime di “privilegio” messo in risalto da Repubblica: “Nel 2013 i grandi player della Rete come Google, Amazon, Apple e Facebook hanno pagato 11 milioni 800mila euro di tasse a fronte di un fatturato complessivo pari a 4 miliardi”.

La replica del gigante telematico

Notizie false, replica il Senior Policy analyst di Google Diego Ciulli, “poiché non tengono conto dei costi aziendali”. A chi parla di economia digitale rivendicando l’esigenza di una tassazione ad hoc, il rappresentante del colosso Internet ricorda che il 75 per cento dei profitti realizzati nelle reti telematiche riguardano comparti produttivi non digitali. E ricadono dunque sull’economia reale.

Poi rileva che per la pubblicità realizzata nel nostro paese su Google e Facebook l’Iva è pagata in Italia. Altro ragionamento – rileva – vale per la corporate tax, che sul piano internazionale ammonta per Google al 20 per cento. Come per tante multinazionali. “E la stragrande maggioranza di tali imposte viene pagata negli Usa, non nei paradisi tributari”.

A suo giudizio il vero problema concerne il regime fiscale sulla proprietà intellettuale in uno scenario di mancanza di frontiere nazionali, perno dell’economia contemporanea.

Risposta protezionista?

Ragionamento cui replica Stefano Selli, direttore Relazioni istituzionali per l’Italia di Mediaset: “Nessuno vuole prevedere regole punitive calibrate su un operatore attivo nel nostro paese. Anche se la sua penetrazione mediatica è formidabile, come nel caso di Google o di NetFlix da poco tempo sbarcato in Belgio”.

Ciò che appare come un privilegio illegittimo, non più praticabile e accettabile – osserva – sono le difformità evidenti dal punto di vista tributario tra i vari gruppi presenti nel terreno comunicativo e mediatico. Realtà che spinge l’esponente del Biscione a caldeggiare l’introduzione di misure protezionistiche come “l’eccezione culturale europea” messa in atto in Francia.

Riequilibrare le disparità

Promuovere una riflessione a livello europeo per affermare il principio della “responsabilità sociale delle imprese attive nel nostro paese nei servizi digitali di rilevanza pubblica e nel commercio elettronico” è la stella polare indicata da Anna Cinzia Bonfrisco, capogruppo di Forza Italia in Commissione Bilancio del Senato.

Firmataria di un testo legislativo ricalcato su quello Boccia, la parlamentare “azzurra” pone l’esigenza di risolvere le enormi asimmetrie fiscali registrate nella penisola. Riducendo l’intollerabile pressione tributaria su famiglie e imprese, e aumentando contemporaneamente le tasse sui profitti dei giganti della Rete.

No ai diktat di Matteo Renzi

Un punto su cui Francesco Boccia non è disposto a compiere retromarce: “Neanche contro i diktat errati del Presidente del Consiglio”. La sua aspirazione è “costruire un fisco adatto all’epoca di trasformazioni che stiamo vivendo con l’avvento dell’economia digitale. E spostare il peso della tassazione per garantire i servizi pubblici fondamentali dai tributi diretti a quelli indiretti”.

Un tema, ricorda il rappresentante del Pd, al centro del confronto pubblico negli Usa, caratterizzati da un assetto “a macchia di leopardo” in cui ogni Stato e città dell’Unione federale pretende la riscossione delle tasse indirette su beni e prodotti commerciali.

Un’enorme di ricchezza non tassata

La logica che guida la sua iniziativa, “lungi da volontà punitive tende a ristabilire equità, simmetria, uniformità fiscale. A prescindere dalla sede legale delle aziende fornitrici”.

La ragione risiede in poche cifre emblematiche: Oltreoceano le attività economiche esentasse, in gran parte comprensive dei guadagni del commercio elettronico, sono pari a 100 miliardi di dollari e non contribuiscono alla crescita del PIL.

Nel nostro paese tali risorse ammontano a 25 miliardi: “A fronte dell’esigenza crescente di spesa per ammortizzatori sociali nei settori produttivi penalizzati dall’exploit delle tecnologie digitali”.

L’Italia rompa lo stallo dell’Europa

L’altro pilastro per il buon esito del progetto portato avanti da Boccia è l’Unione fiscale europea con le stesse aliquote in tutti i 28 Stati membri: “Requisito per una competizione sana e paritaria tra i gruppi economici, nella quale vinca il migliore e non il più furbo”.

Ma se Bruxelles continua a temporeggiare? In tal caso, conclude l’esponente del Nazareno, l’Italia può e deve agire in piena autonomia. “Soltanto così il governo potrà lasciare una traccia del proprio passaggio nel semestre di presidenza europea”.

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