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Quanto costa colpire il Califfo

Il Comando Centrale di Tampa non comunica più il numero totale dei raid: si limita a riportare gli attacchi giorno per giorno (ma, come nel caso di Kobane, spesso si mescolano i numeri tra i giorni precedenti e i successivi).

Non è un caso o una disattenzione (come quella volta in cui la cittadina curdo-siriana è stata definita erroneamente su due voci distinte dell’elenco dei raid, indicandola con la denominazione curda e araba). No: dietro c’è un motivo. Sicuramente un aspetto è legato al tentativo di alleviare la pressione (anche mediatica) di coloro che sostengono che gli attacchi aerei sono scarsi (e timidi): si evita così di fornire “dati certi”, a tutti quelli che propagandano l’intervento di terra come inevitabile. Altro aspetto, poi, quello economico.

Girano le prime cifre sul costo della missione di contenimento che la Coalizione internazionale ha messo in azione da oltre sessanta giorni per contrastare l’avanzata del Califfo. E le cifre sono alte (ma occhio, che ci sono numeri poco affidabili in giro).

Non un gran segnale politico, per ovvie ragioni.

Secondo le stime che Todd Harrison, esperto del Center for Strategic and Budgetary Assessments (think tank di Washington che tratta argomenti della Difesa) ha fatto su Foreign Policy, la spesa per un attacco aereo americano si aggira intorno ai 500 mila dollari. Certo, dice Harrison che potrebbero essere condotti anche raid da 50 mila, utilizzando gli armamenti meno costosi a disposizione, ma se si pensa che F-16, F-15 e F-22 hanno un “costo orario” in missione che varia dai 9 ai 20 mila dollari, la possibilità è presto esclusa. Soprattutto per gli attacchi su Kobane, o sulle aree nord orientali della Siria: gli aerei infatti devono partire dall’Iraq, dato che Erdogan non concede l’uso delle basi turche, sicché sono costretti a missioni lunghe, che richiedono rifornimento/i in volo (e oltre al costo del carburante, ci va aggiunto quello dell’aviocisterna che deve compiere una missione a sé).

Prendiamo una giornata “tipo” come quella di sabato 4 ottobre, in cui gli attacchi condotti tra Iraq e Siria sono stati nove, che hanno portato alla distruzione di due carri armati e tre Humvee (ma anche di un alcuni veicoli armati “improvvisati” di minor valore). Prendendo il costo di 500 mila dollari stimato da Harrison, si arriva a un totale di 4,5 milioni: solo per l’attacco, cioè non si considerando le spese già sostenute nelle missioni di sorveglianza, nei voli di ricognizione per definire il bersaglio e per le attività di intelligence. Raid che per altro ha distrutto, nel caso di esempio di sabato, attrezzature per un totale oscillante tra i 4,5 e i 6,4 milioni di dollari, se si considera il valore stimato di circa 4,5-6,5 milioni di dollari per carro armato e quello di 150-200 mila per ogni Humvee.

Scoraggiante: se si pensa poi che quella stessa attrezzatura andata in fumo, arriva sempre dall’America, dato che il Califfo, dopo la fuga dei remissivi soldati iracheni, si è rifornito abbondantemente nei magazzini delle basi del nord dell’Iraq, lasciati dagli Usa piene di materiale per permettere alle forze armate locali di gestire il “post-ritiro” dopo il 2011. Praticamente Washington sta spendendo centina di migliaia di dollari (dei contribuenti), per colpire i mezzi che gli stessi contribuenti americani avevano precedentemente pagato.

La missione americana, stranamente, non ha ancora un nome – forse per non farla passare come una vera e propria campagna e “sminuirla” a semplice operazione anti terrorismo. Ma qualcuno negli Stati Uniti ha suggerito, per sfottere la Casa Bianca, di nominarla “Operation Hey, That’s My Humvee!“.

Dietro, c’è anche una complessità chiave nel combattere il Califfato, che gli Stati Uniti hanno già incontrato in passato in guerre del genere: le armi tecnologiche e futuristiche occidentali, si trovano a confrontarsi con i mezzi dello Stato Islamica, che fatta eccezione di quelli “rubati” agli eserciti locali (hanno preso “roba” anche in Siria), sono costituiti da auto attrezzate, pick up armati, o furgoni di fortuna. Situazione che ricorda la famosa frase di George Bush a proposito dell’Afghanistan: «I’m not gonna fire a $2 milion missile at a $10 empty tent and hit a camel in the butt».

Ognuno dei missili da crociera Tomahawk costa più di un milione di dollari: gli Stati Uniti ne hanno lanciati 47 (finora) verso le aree nord-orientali della Siria per colpire non lo Stato Islamico, ma un fantomatico e discusso gruppo qaedista denominato Khorosan, in mezzo al quale – e questo sarebbe stato uno degli obiettivi principali dell’attacco – ci dovrebbe essere pure un ex membro dei servizi segreti francesi che ha disertato. Praticamente, 47 milioni di dollari, più tutto i costi connessi, per colpire un manipolo di uomini non superiore alle trenta unità.

Lo stesso rapporto di disparità, vale quando, come spesso accade, i bersagli colpiti sono centri di addestramento, baracche, postazioni singole di mortaio o lanciarazzi: anche in questi casi si deve pensare che nel mirino finiscono obiettivi infinitamente meno costosi dei sistemi impegnati per distruggerli. Per capirci, una bomba a guida gps costa intorno ai 30 mila dollari, un Hellfire 100 mila, un Brimstone inglese sui 200.

Harrison e il suo think tank hanno valutato che in questi due mesi di conflitto, è già stato speso un miliardo di dollari.

Erdogan qualche giorno fa ha detto chiaramente che per battere il Califfo servono uomini a terra: lui ha messo a disposizioni i suoi, ma per farlo vuole il sostegno americano in un possibile regime change in Siria. Accettare per la Casa Bianca sarà difficile, sia perché la monca strategia di Obama non ha prodotto in tutti questi anni un’alternative potabile da sostenere al posto Assad in una fase come questa, sia perché andare contro Damasco significherebbe in automatico andare contro l’Iran – che appoggia da sempre il regime siriano. In pratica una guerra tra USA (con l’Occidente?) e Iran, in un campo terzo come quello siriano: questione su cui, quanto meno, riflettere – sebbene in molti tra quelli che hanno sempre criticato l’appeasement con Teheran la considerino “un’occasione”.

Ma al di là delle problematiche politiche (e geopolitiche), se Washington dovesse cedere alle richieste di chi vuole un’azione di terra, anche contingentata al solo threat dello Stato Islamico, si troverebbe davanti una spesa stimata tra i 200 e i 320 milioni al mese, schierando soltanto 2000 mila soldati. L’escalation (che a quel punto sarebbe quasi inevitabile e irreversibile), comporterebbe almeno l’impiego di un numero doppio di truppe, diciamo intorno ai 5000, con costi che salirebbero a 350/570 milioni al mese – a questi seguirebbe anche l’aumento dei raid aerei e le spese connesse. Una campagna vera e propria, composta da 25 mila soldati, vorrebbe dire per gli Stati Uniti spendere 1,8 miliardi al mese.

@danemblog

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