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Tutti gli interrogativi su Netanyahu nel conflitto israelo-palestinese

La chiusura del Monte del Tempio, o Spianata delle Moschee, da parte delle autorità israeliane è un segnale di quanto la stabilità della questione israelo-palestinese stia raggiungendo uno dei punti più bassi degli ultimi 10 anni.

Da una parte perché la decisione è arrivata dopo che si sono verificati una serie di eventi inquietanti tra Gerusalemme e la Cisgiordania, partiti con il rapimento e l’uccisione di tre giovani israeliani a giugno e la successiva operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza, e culminati con il tentativo di uccisione, la scorsa settimana, di un rabbino americano, attentato seguito da una caccia all’uomo da parte delle Forze di sicurezza israeliane terminata con una sparatoria nel quartiere di Abu Tor a Gerusalemme in cui è rimasto ucciso il presunto attentatore.

Dall’altra perché una decisione del genere (l’ultima chiusura dei luoghi sacri a Gerusalemme Est risale al 2000, dopo che l’allora candidato a Premier israeliano, Ariel Sharon, decise di salire sulla Spianata delle Moschee scatenando la Seconda Intifada) è anche sintomo delle difficoltà oggettive che l’esecutivo israeliano ha nel gestire questa delicata fase storica.

L’Operazione “Protective Edge” di quest’estate ha raggiunto, per ora, l’obiettivo di fermare gli attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza, ma, di certo, non ha fatto uscire Israele da quell’isolamento internazionale in cui si sta trovando sempre di più. Se con l’arrivo al potere in Egitto della Fratellanza Musulmana vi era il timore per la saldatura di un asse troppo stretto con Hamas, il ritorno dell’élite militare al potere al Cairo non è coinciso con la restaurazione di quella relazione politico-diplomatico che Israele aveva con Mubarak. Al-Sisi, infatti, ha sì chiuso i ponti con Hamas, ma sta indebolendo il gruppo islamista non sull’asse con Tel Aviv, bensì rafforzando le posizioni di quel Abu Mazen, leader di Fatah, che gli israeliani hanno sempre più messo ai margini del tavolo del negoziato di pace.

Se di tavolo si può parlare. Perché, anche da questo punto di vista, Netanyahu ha sempre di più adottato una tattica che, di fatto, rispecchia solamente le sue posizioni e quelle di un esecutivo tenuto in scacco dalle fila più oltranziste e conservatrici dello scenario politico israeliano. E neanche il Segretario di Stato americano Kerry, con tutto il peso politico alle spalle del secondo mandato Obama, è riuscito a smuovere il leader israeliano dalle proprie posizioni. Circostanza che ha portato inevitabilmente al naufragio incondizionato di tutte le prospettive negoziali che erano state con difficoltà costruite nell’ultimo anno e mezzo. Anche in questa occasione, però, le aspettative israeliane non hanno coinciso con la realtà. Perché quello che a Tel Aviv era visto come un leader stanco e sfibrato, si è dimostrato un osso più duro del previsto.

Ed è così che Abu Mazen non si è fatto schiacciare nuovamente dal fallimento del tavolo negoziale, ma, con quella che, di fatto, è una forza che proviene anche dalla propria disperazione, ha messo in campo un’offensiva diplomatica di tutto rispetto, sfruttando quei consessi internazionali dove la causa palestinese riveste ancora un’importanza primaria, primo fra tutti le Nazioni Unite. Ed ora il Parlamento svedese ha votato a stragrande maggioranza il riconoscimento della Palestina quale Stato e la Camera dei Comuni inglese ha approvato la formale richiesta al Governo di Londra di fare lo stesso. In Spagna è in programma un voto simile e la Francia ha annunciato che riconoscerà la Palestina qualora non vi siano sviluppi significativi nel negoziato di pace.

Tutto questo in un momento in cui i rapporti tra Israele e Stati Uniti hanno raggiunto uno dei punti più bassi della storia. Netanyahu e Obama non si sono mai piaciuti e questo sicuramente ha avuto un riflesso nelle relazioni bilaterali. Ma ciò non può spiegare il raffreddamento di un rapporto che è profondamente radicato nelle culture politiche e sociali dei due Paesi. Certo la chiusura israeliana al negoziato con i palestinesi non ha aiutato e i periodici annunci della ripresa delle costruzioni degli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est in barba a qualsivoglia richiesta statunitense hanno scavato via via un solco che appare oggi quasi incolmabile anche alla luce dell’intervista della settimana scorsa in cui un esponente dell’Amministrazione americana (anonimo) ha definito Netanyahu un “fifone”. Questa lontananza certo non aiuta gli equilibri regionali e getta degli importanti interrogativi su quello che potrebbe essere il risultato di un futuro, probabile, voto sul riconoscimento della Palestina in Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove, alla luce di questi avvenimenti, il veto USA potrebbe non essere più così scontato.

E allora rimane sempre più forte l’idea che l’ultima decisione di chiudere al culto i luoghi sacri dell’Islam a Gerusalemme, salvo poi riaprirli immediatamente, non sia altro che un segnale reale di paura del Governo Netanyahu, di paura per il timore di rimanere isolati definitivamente, di non avere alternative nel momento in cui anche gli alleati più stretti ti girano le spalle, di aver inanellato una serie di errori politici e diplomatici e ora non avere alternative. In una fase in cui anche la Cisgiordania appare sempre più attraversata da un’ondata di instabilità e le manifestazioni di protesta dei palestinesi si fanno quasi quotidiane anche a Gerusalemme Est. Può darsi che il rappresentante statunitense si sbagliasse, che alla fine Netanyahu non sia un “fifone”. Solo il primo Ministro israeliano lo può dimostrare. Adesso. Nel momento più difficile. Con il coraggio di tendere la mano al proprio nemico per un reale dialogo di pace.

Gabriele Iacovino è coordinatore degli analisti del Centro Studi Internazionali (CeSi) presieduto da Andrea Margelletti

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