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Come alleggerire l’Italia e risanare i conti pubblici

Dividere e snellire piuttosto che moltiplicare e appesantire. E’ la formula migliore per promuovere le politiche da esercitare utilmente per conseguire il risanamento dei conti pubblici in termini di contenimento del deficit e di ripianamento del debito pregresso.

Il nostro Paese è infatti afflitto e gravato dall’esistenza esagerata di istituzioni pubbliche, centrali e territoriali, e di enti/organismi da essi, comunque, economicamente e/o funzionalmente dipendenti. Nel corso del tempo si è, difatti, verificata una proliferazione progressiva di centri di spesa e di decisori istituzionali, tale da sovraccaricare il bilancio corrente della Repubblica, produttivi di deficit inenarrabili, direttamente incidenti nella formazione in progress del debito pubblico, oramai ben oltre il 134%.

COSA BLOCCA IL PIL

Un rapporto percentuale spropositato rispetto ad un PIL destinato a non progredire, a breve, per due ragioni: la difficoltà di generare annualmente avanzi da destinare al costante ripianamento del debito pregresso, sino a ridurlo entro o quantomeno prossimo alla soglia comunitaria (60% su prodotto interno lordo), e l’assenza della volontà di ricercare gli strumenti indispensabili per favorire la crescita complessiva. Quest’ultima rappresenta un risultato impossibile da raggiungere senza i necessari investimenti produttivi, peraltro resi difficili da effettuare – da parte del sistema autonomistico complessivamente inteso – attraverso il ricorso all’indebitamento produttivo, che rintraccia la sua regolazione applicativa nella legge delega rinforzata n. 243/2012, attuativa dell’art. 119, comma 6 (secondo periodo), della novellata Costituzione. Ciò in considerazione del sostanziale diffuso disequilibrio che caratterizza i bilanci della gran parte dei Comuni, soprattutto meridionali, e delle Regioni, ricadenti in quell’area geografica che corrispondeva al Mezzogiorno, impeditivo del ricorso all’indebitamento da finalizzare ad investimenti fissi.

RIPENSARE PROVINCE E REGIONI

Un tale stato di cose – che fa supporre ai più pessimisti la quasi irreversibilità della china recessiva che il Paese ha intrapreso, complice una politica nazionale, incapace di assumere le decisioni indispensabili per modificare il trend negativo della crescita in atto, e una strategia comunitaria che si contrappone all’allentamento dei paletti posti dal Fiscal compact – necessita di un sensibile intervento riformatore, che trasformi radicalmente la composizione della Repubblica, così come ridefinita dalla revisione costituzionale del 2001, sino a ridurre sensibilmente la sua consistenza istituzionale.
Da qui, l’ineludibile esigenza di pervenire alla definitiva espunzione delle Province dalla lettera costituzionale sino ad arrivare alla messa in discussione delle Regioni, così come sono (ahinoi) divenute, e ad una eventuale provvida diminuzione del numero dei Comuni con consequenziale modifica delle attuali forme aggregative, che hanno prodotto una crescita esponenziale del debito pubblico nazionale. Una evoluzione legislativa di rango costituzionale e ordinario che, se supportata dal necessario “coraggio” politico per realizzare la svolta, dovrebbe provvedere altresì al consistente sfoltimento delle società partecipate – generatrici di un progressivo indebitamento, sopportato a mo’ di ammortizzatore sociale – sino ad oggi utilizzate strumentalmente per garantire una facilitata occupazione di poltrone manageriali e affidamenti di consulenze, inutili e costose, nonché una miriade di posti fissi, quasi sempre liberamente assegnati in barba ai blocchi del turnover routinariamente disposti nell’ottica di ridurre le spese correnti della pubblica amministrazione.

L’APPARATO CENTRALE

In un tale processo dovrebbero essere assunte decisioni anche in relazione alla rivisitazione dell’apparato centrale ove andrebbero eliminate le fonti di spesa inutile, per diverse centinaia di milioni di euro annui, generate per garantire postazioni di comodo piuttosto che per facilitare il migliore esercizio delle funzioni fondamentali dello Stato. Invero, sono tantissimi i centri di spesa (molto) “accessori e complementari” al funzionamento di un sistema sempre alla ricerca di siti istituzionali utili al collocamento al lavoro dei “perdenti” elettorali, ancorché costituenti la causa di più numerose e inutili fasi dei percorsi burocratici che si dovrebbero, invece, opportunamente velocizzare per garantire una burocrazia efficiente e funzionale alla crescita secondo i canoni della “serviziocrazia in”, così come definita da Yoram Gutgeld nel suo libro “Più uguali più ricchi” (Rizzoli 2014). Al riguardo, basta pensare alla sanità ove si frappongono strumentali e incomprensibili difficoltà per effettuare i necessari tagli all’organizzazione centrale che sovrabbonda di costi “politici”, ingiustificatamente sopportati da anni solo e soltanto per mantenere in vita organismi che sono, tra l’altro, causa di dannosi espropri dell’autonomia regionale, specie in termini di programmazione, dai quali derivano errori a catena più o meno consapevoli, sulla concreta portata erogativa dei Lea. Ciò esclusivamente per mantenere in piedi quanto più volte messo in discussione – in un passato pavido ad intervenire radicalmente così come avrebbe invece dovuto – ad esclusivo vantaggio di una occupazione di élite, fine a se stessa, e di una attribuzione di alte cariche rappresentative e direzionali che non avrebbero ragione di essere in un sistema sanitario che fonda la sua esistenza sulla autonomia gestoria delle Regioni. Una autonomia, costituzionalmente pretesa, frequentemente messa in pericolo dalle criticità economiche, “guadagnate” dall’incuria politica di alcuni governi regionali, che hanno prodotto, tra l’altro, una fiscalità aggiuntiva a carico delle collettività sofferenti in termini assistenziali e oberate da saldi debitori inenarrabili da ripianare a fatica in decenni.

UN’EFFICACE SPENDING REVIEW

Insomma, occorre una buona spending review sistemica che passi per la riorganizzazione dell’apparato pubblico, centrale e territoriale, funzionale ad un suo consistente snellimento da effettuarsi attraverso la “potatura dei rami secchi” che pregiudicano, peraltro, la quantità e la qualità delle sue performance, generali e specifiche, generative di notevoli dispendi di risorse economiche, da potere destinare altrove, prioritariamente al ripianamento del debito pubblico. Tutto questo dovrà essere, ovviamente, assistito da una contemporanea serie di riforme strutturali delle attività erogative più strategiche, strumentali ad ottimizzare i servizi pubblici e a migliorare le prestazioni essenziali da rendere in favore dei cittadini a mente del dettato costituzionale.

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