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Ilva, ecco che cosa (non) cambia con l’intervento di Bassanini e Gorno Tempini

E se Ilva diventasse statale? E se dopo Taranto fosse la volta di Terni? Scenari apocalittici, secondo i turbo liberisti. Ma sono prospettive davvero realistiche? E se sì, che cosa cambierebbe davvero rispetto al groviglio normativo-burocratico-giudiziario che ammorba l’Italia quanto il detestato inquinamento?

Cerchiamo di fare, se possibile, chiarezza. Per esempio, l’interesse di Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal ministero dell’Economia. Anche se con sostegni più o meno indiretti, la Cassa è di fatto in campo, come già scritto in un articolo ricognitivo sui dossier allo studio della società presieduta da Franco Bassanini e guidata dall’ad, Giovanni Gorno Tempini.

C’è poi il sì di Palazzo Chigi – secondo le indiscrezioni raccolte da Formiche.net – a destinare risorse pubbliche per il risanamento di un’industria fondamentale per la nostra economia, quella siderurgica.

C’è inoltre il fatto che la questione dell’acciaio è centrale a Bruxelles più dello sforamento del vincolo del 3%, come pure il fatto che lo statuto della Cdp vieta di entrare nel capitale di aziende in perdita. Infatti al momento si vocifera di sostegno finanziario ai potenziali acquirenti di Ilva.

Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione italiana dei fondi di private equity (Aifi), ha suggerito di quotare in Borsa la Cassa proprio per superare i vincoli di intervento del gruppo presieduto da Bassanini.

Tuttavia, ci sono un paio di punti che potrebbero far saltare il banco, aggravando ulteriormente la fase di declino industriale che l’Italia sta vivendo: la certezza del diritto e il ddl in materia di reati ambientali, in discussione dallo scorso febbraio presso le commissioni riunite di Giustizia e Ambiente al Senato.

Come ricordato dall’inviato del Sole 24 Ore, Paolo Briccorecentemente intervistato da Formiche.net, “a Taranto i giudici hanno privilegiato un canone unilaterale del diritto portando agli estremi l’obbligatorietà dell’azione penale e prefigurando il gravissimo reato di disastro ambientale a carico della famiglia Riva creando un cortocircuito produttivo e occupazionale” per aver “seguito l’equazione fermare l’impresa=fermare l’inquinamento”.

Quindi, se è essenziale dare seguito a tutte le proposte finora giunte, diventa altrettanto importante stabilire una distinzione netta tra colpa, dolo e grave negligenza proprio nella legge sui reati ambientali.

Le responsabilità sono diffuse e il dossier sull’acciaio italiano è estremamente complesso. E in questi anni le procure non hanno certo usato un metro più clemente per lo Stato-imprenditore (chiedere a Eni ed Enel per conferme). Perciò serve un nuovo patto. Ne parliamo?

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