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Il partito della nazione caro a Matteo Renzi e le sue stagioni

Il partito della nazione è un movimento politico italiano che non esiste, ma è molto evocato (specie da Matteo Renzi) come denominazione di uno strumento strutturato d’un tipo mai sperimentato e che si proponga di superare antiche demarcazioni e classificazioni e proporsi come forza del futuro. Il Foglio (28 novembre) richiama con fondamento il recentissimo incontro tra il presidente italiano e l’ex leader del New Labour Tony Blair, entrambi alla ricerca di una mitica Terza via. Ciò malgrado, il partito della nazione, nella sostanza, ha vissuto già varie stagioni, nella Prima e nella Seconda Repubblica.

La Democrazia cristiana, anzitutto, fu più volte rappresentata come un partito nazionale, interclassista, non etnicistico ma rispettosissimo dell’autonomia locale, un concetto contrapposto a partito nazionalista quanto a cultura e comportamenti, inevitabilmente sfocianti in autoritarismo. Ma anche il suo diretto concorrente, il partito comunista di Togliatti, nella sua propaganda si presentava come un partito della nazione: intendendo formalmente distinguersi dall’internazionalismo sovietista e assicurare ai cittadini d’altra tendenza che, se giunto al potere, non avrebbe fatto riferimento al modello delle democrazie progressive dell’Est europeo, bensì ad un modello originale cui si diede il nome di via nazionale al socialismo. Un piccolo particolare: sul distintivo che gli iscritti al Pci erano tenuti a portare all’occhiello in maniera vistosa, alla falce e martello in centro rosso sanguigno venne aggiunto un rettangolino col tricolore italiano.

La Dc tornò a qualificarsi come partito nazionale al tempo dell’insorgenza della Lega Lombarda accreditata (ma con successiva clamorosa rottura) da Gianfranco Miglio (il politico comasco che era stato democristiano almeno per un ventennio) al fine di prendere le distanze da un movimento che proponeva la secessione delle regioni settentrionali del Paese e incontrava seguaci e supporter nel basso clero delle vallate prealpine. Ma anche nel Pci, specie tra i giovani di Città Futura, in fine anni Ottanta si discusse di partito della nazione. Nel tentativo dell’ultima leva dei comunisti italiani di dare una diversa connotazione alla Figc perché fosse meno dipendente dalla burocratica e tradizionale direzione del partito e consentisse agli accesi fermenti giovanili di proporsi subito in via diretta di successione alla classe dirigente del Pci, divisa fra destra migliorista e sinistra continuista ma sostanzialmente antisocialista e alternativa alla Dc.

Fu però, in piena Seconda Repubblica, dopo la caduta del II governo Prodi e una consultazione anticipata (che confermò le condizioni di minorità nel Paese della sinistra ulivista e il ritorno in maggioranza del centro-destra di Silvio Berlusconi) che in campo strettamente centrista si prese in considerazione l’ipotesi di accantonare gli ultimi vessilli utilizzati dal 1994 e di proporsi, in quanto presunto ago della bilancia, come partito della nazione: smarcandosi sia dal polo di sinistra che da quello di destra. Ad assumere l’iniziativa fu, non a caso, Francesco Cossiga, ex capo dello Stato, che in un colloquio con Renzo Foa pubblicato sul quotidiano Liberal (organo ufficiale dell’Udc di Casini e Buttiglione), denunciò l’assenza di cultura nella politica corrente, il fallimento del popolarismo e l’improponibilità di un ritorno ad un partito dei cattolici e avanzò la proposta di una nuova assemblea costituente che rifondasse lo Stato democratico. Tenne a puntualizzare Cossiga: «Le culture non si inventano a tavolino, non s’inventano né con l’Ulivo né con il Partito democratico. Anche perché non siamo in America, che è un mondo diverso».

Per alcune settimane Liberal si trasformò in una palestra di riflessioni plurali, alle quali parteciparono esponenti centristi cattolici e laici e l’Udc (ora Cdu) annunciò ufficialmente di volere proporsi come elemento propulsivo di una assemblea costituente che superasse il popolarismo come sin lì conosciuto in Italia e, per quanto la riguardava direttamente, manifestò l’intenzione di sciogliersi e di confluire in un partito della nazione, distinto dai poli di centro-destra e di sinistra.

L’idea piacque a molti professori; non dispiacque a tanti nostalgici della Dc; ma fece storcere il naso a non pochi vecchi democristiani, cresciuti sotto le lezioni di Alcide De Gasperi e dell’autonomismo sturziano, perché l’espressione partito della nazione poteva trovare accoglienza tra presidenzialisti di antico conio e da involontari imitatori del gollismo francese. Quasi se ne volesse recuperare la grandeur e accentuare una separatezza in sede europea, dove tanto i cattolici che i socialdemocratici, pur essendo maggioritari, apparivano palesemente anch’essi in profonda crisi culturale.

Recentemente di partito della nazione ha parlato Matteo Renzi, col proposito di rottamare tutte le bardature da archeologia politica che persistono in Italia, liberarsi degli ideologismi del Novecento, rimescolare l’intera geografia politica italiana e dare corpo ad una inedita formazione politica che, assorbito il partito democratico nel momento in cui esso è ancora sulla cresta dell’onda, riesca ad allargarsi ad altri settori e, riconquistato l’ésprit flórentin del XV secolo e la cultura italiana che all’epoca s’era imposta anche in Europa, sia in grado di fare uscire l’Italia dalla palude politica e costituzionale e dare reale stabilità alle istituzioni.

Ma il partito della nazione continua a non esserci. Per la pigrizia d’un ceto politico che non riesce a vedere il mondo che cambia oltre la punta del proprio naso; ma anche per il sospetto, più vivo in persone d’età che hanno maggiore percezione dei rischi incombenti sul sistema democratico rispetto agli avanguardisti che abbracciano disperatamente i propri sogni ritenendoli realistici, che, in nome della nazione, si ripetano errori recenti e si lasci, invece, inconclusa tanto l’unità nazionale che l’alternanza democratica: che è poi il perno di una democrazia effettiva, specie in epoca contemporanea.

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