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Vi spiego come risanare la funzione essenziale dei partiti

L’assemblea costituente non riuscì a precisare la funzione dei partiti nella nuova democrazia postbellica perché molto distanti erano le concezioni della sinistra rispetto a quelle dei democristiani e dei gruppi di democrazia liberale.  L’intenzione comune era di concepire i partiti come strumenti di organizzazione del consenso con funzioni di rappresentanze popolari. Però due questioni erano già emerse al congresso antifascista di Bari di fine gennaio 1944 in maniera macroscopica.

Anche a fronte del dominio oggettivo, in quella fase, del controllo militare e civile dei comandi alleati occupanti i territori meridionali liberati, i partiti erano condizionati nei loro movimenti. Dove cominciasse e fin dove potesse spingersi la libertà dei partiti, era ancora dovuto ai “permessi” alleati. Mentre prendeva a manifestarsi qua e là la pressione che i comitati locali di liberazione nazionale, che pretendevano di rappresentare in maniera esclusiva l’antifascismo anche laddove gli alleati non avevano ricevuto sostegno da italiani per spingere i tedeschi verso le Alpi e si erano fatti molto aggressivi a liberazione avvenuta. In palese contrasto con le formazioni politiche di tipo tradizionale e con il pluralismo sociale e politico del Paese, col loro rinchiudersi in se stessi nella convinzione di possedere – come accadeva nei Paesi dell’Est europeo – una forza inclusiva e trainante della società, i Cln regionali e locali ormai provocavano un progressivo ridi­mensionamento dei gruppi politici vecchi e nuovi, così diversi l’uno dall’altro; e quasi li contestavano nelle loro stesse funzioni.

Ad avanzare le loro pretese erano azionisti, comunisti e socialisti all’insegna di un frontismo popolare di stampo francesista anni Trenta, mentre tutti gli altri partiti erano contrari a sovrapposizioni organizzative e di rappresentanza politica anche agli occhi dei comandi alleati, che cominciavano a spazientirsi del monopolismo politico delle sinistre. Al momento della definizione della funzione dei partiti in norme giuridiche ordinamentali, i padri fondatori si trovarono così a misurarsi concretamente con due problemi fin lì trascurati o comunque tenuti in sospeso. In primo luogo, se non un partito ma una molteplicità di partiti era ora impegnata nella costruzione di un nuovo Stato su regole democratiche più avanzate rispetto a quelle della democrazia prefascista, occorreva che i partiti, tutti, di governo e di opposizione, fossero riconosciuti, appunto nella carta costituzionale, come soggetti pubblici speciali – dissimili da altri tipi di associazionismi (come i Cln locali e i sindacati, per esempio, ma non solo) -, poiché soltanto da un riconoscimento giuridico codificato nella magna charta, e ulteriormente precisato in leggi ordinarie, poteva legalmente dipendere la loro auspicata funzione di indirizzo e di determinazione della politica nazionale.

Una seconda questione, però, fu posta in diretta connessione con il riconoscimento giuridico: quella dell’accertamento dell’esistenza, nei partiti impegnati nel lavoro costituente o ad essi estranei per insufficiente consenso raccolto il 2 giugno 1946, di una normale vita interna cristallinamente democratica: sia per i momenti di formazione e pubblicizzazione delle decisioni di movimenti chiaramente distinguibili l’uno dall’altro; sia per la limpidità dei finanziamenti ricevuti sui quali le singole forze politiche erano tenute a dimostrare il loro diritto al ricorso a  contribuzioni, ordinarie e speciali, a proprio piacimento, in libertà ma non senza trasparenza. Fu questa seconda questione, particolarmente cara ad un Pci chiaramente partecipe di una internazionale ideologica e di mutuo soccorso finanziario tra “partiti fratelli”, che portò, prima, a respingere aprioristicamente l’idea di un controllo pubblico dei propri bilanci; poi, l’eccessivo fiscalismo che v’era connesso e, in estrema sintesi, una  normativa costituzionale che potesse consentire non alla legge, ma a disposizioni speciali emanate  da esecutivi caratterizzati da un indirizzo politico diverso da quello vigente nella fase originaria della costruzione dell’ordinamento costituzionale, di controllare l’opposizione. Si ritenne in altri termini da parte della sinistra e di altri gruppi che vi si accodarono, più opportuno evitare la reiterazione dell’autoritarismo fascista; si impose ai futuri governi di non avvalersi di una qualsiasi interpretazione estensiva (o retroattiva) tanto del riconoscimento giuridico che della correttezza dei finanzia­menti per tenere in vita non partiti nazionali ma internazionalisti. Come quelli effettivamente collegati, negli anni Venti, attraverso  catene di mutuo soccorso organizzate a Mosca dal centro bolscevico leninista. Di qui l’indeterminatezza e fragilità dell’art. 49 Cost. e la debolezza strutturale e funzionale dei governi rispetto al parlamento con tendenza all’assemblearismo, molto gradito alla composita sinistra. Il finanziamento pubblico dei partiti venne introdotto in Italia decenni dopo il varo della costituzione: perché la sinistra mutò parere.

Da non volere invadenze pubbliche e del potere esecutivo nella propria vita interna, verificato che ciò favoriva le forze di destra (che invece erano interamente sorrette da organismi economici tra loro ben collegati – come la Confintesa – per favorire l’espansione del partito liberale di Malagodi e le operazioni di sottogoverno della destra monarco-fascista), la sinistra chiese e riuscì ad imporre il ricorso al finanziamento pubblico. Che avrebbe dovuto garantire un corretto equilibrio dei finanziamenti ai partiti in relazione proporzionale coi voti conseguiti in consultazioni politiche. Ma, in breve, il finanziamento pubblico si trasformò in un sistema di corruttele, considerato dai cittadini (raramente ingiustamente) la ragione stessa del degrado della politica, mentre sul finanziamento privato si cercò di imporre vincoli così alti da non renderli praticabili agevolmente.

La corruttela politica è dilagata via via in tutti i territori italiani e si è persino perfezionata e raffinata per eludere la legalità. Non passa giorno che non insorga un caso di corruzione che investe partiti grandi, medi, piccoli e minutissimi, sicché nasce il sospetto che troppi furbetti si danno alla politica scambiandola per una attività che consente affari facili. E la gente comune reagisce in due modi: mandando al diavolo i politicastri e disertando le urne elettorali (come s’è macroscopicamente verificato nelle regionali della Calabria e dell’Emilia-Romagna, dove l’astensionismo si è consolidato come primo partito attestandosi sul 60 per cento degli aventi diritto); oppure dando man forte ai gruppi populisti e protestatari che, a  nome di una presunta Democrazia 2.0, abbandonate sostan­zialmente le piazze, sono entrati nei palazzi del potere. Dove, pur non producendo o soltanto suggerendo leggi, partecipano alla spartizione dei finanziamenti pubblici. Che, in tal caso,  foraggiano l’antipolitica e la diseducazione democratica. Abbattere tutti i finanziamenti pubblici potrebbe apparire una soluzione apprezzata dalla maggioranza dei cittadini. Ma sarebbe davvero utile a sradicare le corruttele? Chi è estraneo alla malmostosa Cupola di Roma? Chi rappresenterebbe chi? E come si determinerebbe la politica del Paese democraticamente senza più partiti impoveriti e ridotti alla miseria lasciando che si affermino partiti di banchieri e manager? Forse è giunto il momento di tornare alle origini, al tempo delle discussioni sulla funzione dei partiti. Allora lo imponeva la fine di un regime autoritario.

Oggi lo obbliga il rischio che il fallimento dei partiti abituatisi agli abusi ci porti all’assolutismo di qualche magnate in un clima di spesa pubblica facile e tuttavia  legalizzata. Vi sono altre alternative al finanziamento pubblico che non siano penalizzanti per chi voglia fornire loro mezzi finanziari? Perché non si comincia a indicarle e a valutarne l’efficacia democratica? Naturalmente non per opporre freni e ulteriori vincoli giudiziari, così spostando ulteriormente verso la magistratura il giudizio sulla politica e sull’evoluzione storica. Ma solo, almeno, per fissare delle regole che evitino abusi e spavalderie.

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