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Le relazioni pericolose tra Erdogan e Putin

Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno ottimi rapporti personali, interessi comuni e una storia politica, per molti versi, analoga: entrambi da primi ministri sono diventati presidenti e tendono ad aumentare il loro potere. Inoltre, condividono un crescente anti-occidentalismo e una visione del mondo differente da quella dominante in Occidente. Rifiutano il multilateralismo e l’internazionalismo liberale. Il loro modello politico è quello del XIX secolo, della geopolitica degli spazi vitali e delle frontiere mobili.

Sono tra i sostenitori del “nazionalismo territoriale” che sta diffondendosi nel mondo e che spesso viene confuso con il multipolarismo. Esso si nutre anche di geo-storia, della celebrazione delle grandezze del passato e, insieme, della protesta per i torti subiti e dei sospetti sulle intenzioni degli altri, che sarebbero sempre ostili. Il “neo-ottomanismo” turco di Erdogan e del suo primo ministro Ahmed Davutoglu – che l’ha teorizzato – ha molto in comune con la nostalgia di Putin per l’URSS, il cui collasso è considerato dal padrone del Cremlino “il maggior disastro geopolitico della storia”. Erdogan e Putin sono nazionalisti, pragmatici e spregiudicati. Utilizzano la religione come strumento di coesione interna e di potere esterno. Condannano l’egemonia americana nel mondo. Vogliono avere le mani libere in quelle che ritengono essere le loro naturali zone d’influenza. Respingono le interferenze esterne.

Tali tendenze sono preoccupanti. Possono provocare crisi locali. La Turchia rende più complesso ogni intervento occidentale per la stabilizzazione del Medio Oriente. La Russia non è una “piccola URSS”. Non è più in grado di sfidare l’Occidente. Può vincere una battaglia, sfruttando le divisioni e debolezze dell’Europa, non un conflitto di maggiori dimensioni. Se esagera, l’Occidente mobiliterà le sue più grandi risorse e la schiaccerà. Sanzioni occidentali e crollo del prezzo del petrolio stanno già mettendo in difficoltà Mosca, come avvenne negli anni Ottanta dello scorso secolo. A differenza di Gorbaciov, è però improbabile che Putin si pieghi. E’ più probabile che aumenti la sua aggressività, sfruttando le sue abilità di scacchista sulla scacchiera internazionale, sia per mascherare la propria debolezza, sia per giustificare alla patriottica opinione pubblica russa l’inevitabile diminuzione del benessere, che aveva promesso di aumentare.

A parte i discorsi provocatori e minacciosi contro il “nemico esterno” e i “traditori interni”, pronunciati dai due leader, il Mar Nero sta aumentando la sua importanza per la sicurezza europea. Da autostrada di cooperazione con la Russia, luogo del corridoio trans-europeo TRACECA (Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia) e del progettato canale Don-Volga-Mar Caspio-Lago di Aral, si sta trasformando in luogo di confronto fra l’Occidente e la Russia. La posizione di Ankara è ambigua. Cerca di trarre vantaggio dalla situazione per attuare i suoi interessi economici e anche le sue ambizioni nazionali. In Crimea vi sono circa 20.000 soldati russi e Mosca ha deciso un forte potenziamento della Flotta del Mar Nero. Le forze armate dell’Abkazia sono passate sotto comando russo. L’intera strategia della NATO è in corso di revisione. Esiste il timore che Mosca reagisca al risultato filo-occidentale delle elezioni in Moldavia e cerchi di seminare zizzania in Europa sostenendo i partiti di destra e di estrema sinistra.

Il baricentro NATO nel Mar Nero si è trasferito dalla Turchia alla Romania. Sono state potenziate le basi aeree e schierate forze americane. Le reazioni dell’Alleanza alla crisi ucraina sono state però incerte. Le divisioni fra i paesi europei hanno impedito all’UE di svolgere un ruolo di rilievo. L’hanno svolto i singoli Stati, in particolare la Germania. Solo gli USA hanno reagito con vigore dal Baltico al Mar Nero. Nessuno può invidiare l’Alto Rappresentante, l’italiana Federica Mogherini. Per bene che le vada, sarà accusata di inefficienza per la debolezza e l’inconcludenza dell’Europa. Parte degli europei giustifica Putin. Ritiene che la sua aggressività sia solo una giustificata reazione alle provocazioni e ai torti subiti dall’Occidente. Gli allargamenti della NATO e il sostegno della rivolta Maiden in Ucraina sarebbero i veri responsabili della paranoia nazionalista di Mosca.

Senza la Turchia, il Mar Nero non può essere reso sicuro, se non con attacchi aerei dalle basi romene sulla Flotta russa. Ormai Nato e Europa sono incerti su quanto farà Ankara, anche a causa dell’evoluzione interna che sta subendo e che potrebbe essere accelerata qualora, il prossimo anno, Erdogan riuscisse a trasformarla in Repubblica presidenziale.
Dopo 350 anni di conflitti (gli imperi zarista e ottomano si sono combattuti una quindicina di volte), le relazioni fra Mosca ed Ankara sono molto migliorate dopo la fine della guerra fredda. I due paesi sono uniti da consistenti interessi economici.

La Turchia dipende dalla Russia per il soddisfacimento di gran parte dei suoi fabbisogni energetici. Ha approfittato delle sanzioni imposte alla Russia dall’Occidente e dalle contro-sanzioni di Mosca per aumentare notevolmente il suo export soprattutto agricolo sul mercato russo. La Russia aumenterà i rifornimenti di gas naturale non solo per i consumi interni turchi, ma anche per trasformarla in hub energetico dell’Europa. Putin cerca di consolidare così il suo pratico monopolio dei rifornimenti di gas all’Europa, che gli consente pressioni politiche. Esso potrebbe essere insidiato solo dalla normalizzazione dei rapporti fra l’Occidente e l’Iran e dal trasporto in Europa del gas iraniano, oltre che di quello del Kurdistan iracheno.

Nella “grande strategia di Mosca” l’avvicinamento alla Turchia è convergente con quello alla Cina, all’Iran, al Pakistan e, in futuro, anche all’India. Sottolinea l’indipendenza di Mosca dall’Occidente. La decisione di sospendere la costruzione del South Stream e di sostituirlo con un maxi-gasdotto sottomarino (63 miliardi di m3 all’anno) per rifornire l’Europa meridionale e centrale tramite il territorio turco, è coerente con tale strategia. Dal 1° gennaio il prezzo del gas destinato al consumo turco verrà diminuito del 6% (quando il nuovo maxi-gasdotto entrerà in funzione, la diminuzione sarà del 15%), mentre i rifornimenti di gas alla Turchia verranno aumentati per fronteggiare i maggiori consumi di un inverno che si preannuncia alquanto rigido.

Anche in questo caso, il “generale inverno” gioca a favore di Mosca. Sempre in campo energetico, Putin ha poi confermato l’impegno russo a costruire la grande centrale nucleare di Akkuyu sulle coste sud-occidentali anatoliche (quattro reattori ad acqua pressurizzata, ciascuno da 1.200 MW di potenza installata).
Beninteso, la Turchia non pensa di allearsi con Mosca. Valorizza la sua posizione geografica per i suoi interessi sia economici, sia politici, nell’Organizzazione della Conferenza Islamica. Ankara è troppo legata all’Occidente. Non può sostituirlo con la Russia. Anche Mosca non può spingere oltre un certo punto i suoi legami con la Cina. Rischierebbe di divenirne uno junior partner.

L’ordine internazionale e neppure quello regionale non si modificheranno a seguito dei più stretti legami fra la Turchia e la Russia. La situazione diverrà però più fluida e instabile. L’ordine derivato dalla fine della guerra fredda potrebbe esserne progressivamente eroso. L’unica possibilità di evitarlo sta nella capacità dell’UE di legarsi maggiormente alla Turchia. In caso contrario, aumenterebbe la tendenza di Erdogan di sfidarlo, aumentando l’instabilità del Mar Nero, oltre che del Medio Oriente. L’Europa dovrebbe essere più consapevole delle preoccupazioni e ambizioni della Turchia e aiutarla a realizzare le seconde, anche nei riguardi dei curdi siriani, definiti alquanto affrettatamente dal conduttore di Piazza Pulita “combattenti per la libertà e la democrazia”.

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