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Tra Renzi e Alfano scherzi di Natale o colpi di grazia?

Chissà se Roberto Speranza, il giovane presidente del gruppo del Partito Democratico a Montecitorio, avrà avuto modo di leggere il saluto natalizio di Pierluigi Magnaschi ai lettori di Formiche.net. E di arrossire un po’ di vergogna per l’uso assai maldestro ch’egli ha fatto degli auguri in questi giorni.

Magnaschi ha raccontato, fra l’altro, del Buon Natale in tedesco gridato di notte nel 1916 ai soldati austriaci appostati a 50 metri di distanza da un ragazzo italiano in trincea, che avrebbe poi perso un braccio e sarebbe diventato suo padre. Quel grido, stupidamente punito con 15 giorni di carcere per “fraternizzazione col nemico”, aveva espresso lodevole “speranza e intenerimento nonostante tutto”, nonostante cioè la morte alla quale erano stati mandati tanti innocenti, su tutti i fronti, da “case regnanti europee” impegnate a “bisticciare tra loro”.

Con una voglia, appunto, di bisticciare che non fa onore alla delicata funzione politica procuratagli due anni fa da uno sprovveduto – anche per questo – Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, Speranza ha twittato un sarcastico e provocatorio buonnatale a Maurizio Sacconi, capogruppo del Nuovo Centrodestra al Senato. Che era appena uscito sconfitto in un braccio di ferro sulla presunta nuova disciplina dei licenziamenti, in applicazione della delega per la riforma del mercato del lavoro.

Il partito di Sacconi non è all’opposizione ma al governo, rappresentato da ben tre ministri, fra i quali quello dell’Interno Angelino Alfano.  Esso si aspettava giustamente – e aveva reclamato alla vigilia della riunione prenatalizia del Consiglio dei Ministri – che fosse ammessa l’opzione dell’indennizzo al posto del reintegro disposto dal magistrato contro licenziamenti individuali ritenuti ingiustificati.

Uscita dalla porta del dibattito sulla legge delega fra le proteste e le minacce della minoranza del Pd e dei sindacati, la vecchia e troppo restrittiva disciplina dei licenziamenti è praticamente rientrata dalle finestra dei decreti di attuazione della riforma, con quali effetti sulla possibilità di nuovi investimenti non si tarderà purtroppo a vedere.

La decisione del governo, e in particolare del presidente del Consiglio, che se n’è assunta interamente la responsabilità politica, non è valsa a placare i sindacati, che hanno continuato a protestare contro il complesso della riforma e a minacciare, ma è stata di qualche sollievo per almeno una parte della minoranza del Pd, che con Speranza ha cantato vittoria irridendo il partito di Alfano.

Ancora una volta la montagna dei riformisti, a parole, ha finito per partorire il topolino, lamentato da Sacconi, come d’altronde accadde sulla stessa materia all’epoca del governo tecnico di Mario Monti, con Elsa Fornero al Ministero del Lavoro. Capita spesso in politica di resistere fino a un momento prima di cedere, come alla fine degli anni Sessanta il socialista Fernando Santi soleva dire del suo compagno e segretario di partito Francesco De Martino. Ma anche il partito di Alfano ha resistito fino a un momento prima di cedere, chiudendo la partita con qualche borbottio e proposito di tentare chissà quando e dove qualche recupero rispetto al “compromesso” trovato in Consiglio dei Ministri.

L’unico a ricavarci politicamente qualcosa, sia pure sul piano più tattico che strategico, è stato ed è Silvio Berlusconi. Sotto il cui albero di Natale Renzi ha deposto con i fiocchi del famoso “patto del Nazareno” il regalo di un Nuovo Centrodestra umiliato. Un regalo che forse il presidente del Consiglio spera di vedersi ricambiare nella partita del Quirinale.

Il partito di Alfano avrebbe una sola possibilità politica, oltre al congegno tecnico delle basse soglie elettorali di accesso al Parlamento, di conservare o guadagnare spazio e capacità contrattuale con l’area di provenienza per una riedizione delle vecchie alleanze: dimostrare l’utilità generale, e non solo personale di ministri e sottosegretari, della partecipazione temporanea ad un governo e a una maggioranza di sostanziale centrosinistra, guidata a Palazzo Chigi dallo stesso segretario del Pd. Ma, dopo avere praticamente zittito il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi, che aveva denunciato non a torto il carattere quanto meno eversivo, se non terroristico, delle azioni di boicottaggio contro i collegamenti ferroviari ad alta velocità, condotte al riparo degli sconti appena ottenuti in sede giudiziaria dai sabotatori dei cantieri in Val di Susa, Renzi ha inferto agli alfaniani qualcosa che assomiglia al colpo di grazia sul terreno della riforma del mercato del lavoro.

Il ministro dell’Interno rischia ora di godere della stessa, falsa serenità promessa da Renzi l’anno scorso, di questi tempi, all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. Una serenità ben poco leopardiana, destinata a sopraggiungere come la morte dopo la sofferenza dell’agonia. Del resto, Alfano ha già perso la vice presidenza del Consiglio nell’improvviso e sgarbato passaggio da Enrico Letta a Renzi sotto le volte di Palazzo Chigi.

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