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Renzi con Mattarella affonda il Nazareno

I conti, specialmente quelli del cosiddetto patto del Nazareno stretto un anno da Matteo Renzi con Silvio Berlusconi, decisamente non tornano sulla giostra del Quirinale né dopo l’inutile sfilata delle delegazioni dei partiti davanti a Matteo Renzi nella sede del Pd, né dopo il successivo, meno pleonastico ma convulso supplemento di incontri imposto al presidente del Consiglio dal rifiuto di Berlusconi di mescolarsi con le comparse, né dopo il primo scrutinio nell’aula di Montecitorio.

Avevano cominciato a non tornare quel “si parte e si arriva a Sergio Mattarella” annunciato, seppure poi smentito, dal vice segretario del Pd Lorenzo Guerini con la probabile autorizzazione di Renzi e quei “maggiori pericoli scampati” che Berlusconi, reduce da un lunghissimo incontro con lo stesso Renzi, aveva annunciato ai suoi parlamentari. Che avevano ascoltato e discusso convinti, senza avere preso allucinogeni di sorta, che l’ex Cavaliere si fosse riferito anche a Mattarella e non solo a Romano Prodi. D’altronde, Mattarella è quello che da ministro della sinistra democristiana si era dimesso per protesta nel 1990, con altri colleghi di corrente, contro la piena legittimazione della televisione berlusconiana. La proposta renziana di portarlo da giudice della Corte Costituzionale al vertice dello Stato era stata perciò vissuta comprensibilmente dalle parti berlusconiane come una bizzarria, se non come una provocazione.

Ma i conti non erano ad un certo punto tornati neppure nel partito di Renzi, che non a caso aveva smesso di scommettere sulla quarta votazione, quando dalla maggioranza dei due terzi si passerà nell’aula di Montecitorio alla maggioranza assoluta dei grandi elettori del presidente della Repubblica. Ma soprattutto egli aveva cominciato ad avere ripensamenti e paure sull’ordine originario di sterilizzare le prime tre votazioni con le schede bianche dei suoi compagni ed amici, si fa per dire, di partito. Schede sulle quali il presidente del Consiglio, digiuno o scarso di esperienza parlamentare, aveva cominciato a sospettare che non fosse poi tanto difficile scrivere in fretta, nelle cabine sistemate sotto il banco di presidenza della Camera, un nome. Un nome magari brevissimo, come Prodi, indicato a sorpresa da Beppe Grillo con Pier Luigi Bersani ed altri sette candidati per le cosiddette quirinarie elettroniche del movimento pentastellato.

I conti non erano tornati, nel Pd, neppure a Bersani. Che avrebbe forse preferito vedere fermi i grillini sulla originaria posizione di chiusura e di isolamento, per quanto costatagli due anni prima la segreteria del partito e la corsa a Palazzo Chigi per la formazione di un velleitario governo minoritario di “cambiamento e combattimento”, appeso all’attesa, cioè agli umori, del comico genovese.

Quella posizione grillina di chiusura pregiudiziale, tradottasi poi in una polizza assicurativa per tutti i protagonisti delle cosiddette larghe intese, da Enrico Letta a Renzi e a Berlusconi, avrebbe risparmiato all’ex segretario del Pd l’imbarazzo di potersi trovare in concorrenza con Prodi. Imbarazzo personale, per gli indiscutibili rapporti di amicizia fra i due esponenti emiliani della sinistra post-comunista e post-democristiana, ma anche politico per il sospetto che si sarebbe potuto avere di un troppo astuto e nuovo sgambetto all’ex presidente del Consiglio. Da cui proprio Bersani aveva chiesto nei giorni scorsi di “ricominciare” la corsa al Quirinale, con una tempistica che avrebbe potuto far pensare ch’egli in realtà volesse arrivare a se stesso.

Ma dalle urne della prima votazione i nomi sia di Bersani sia di Prodi sono usciti a livello sostanziale di voti dispersi, ben distinti dal candidato nel frattempo promosso a bandiera dai grillini: l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. Ciò consente a Renzi di coltivare con più realismo, salvo clamorose sorprese, la speranza di portare a casa l’elezione di Mattarella a maggioranza assoluta già al quarto scrutinio, salvo clamorose sorprese, con l’appoggio di vendoliani e di quel che resta degli amici di Monti, ma non di Berlusconi, e neppure di Angelino Alfano. Cosa, questa, che ammacca contemporaneamente, se non rottama, il patto del Nazareno e la maggioranza di governo, con imprevedibili effetti peraltro sulle riforme elettorale e costituzionale ancora in corso d’opera parlamentare, sinora procedute sul doppio binario appunto di Berlusconi e Alfano. Che sono ora destinati forse a superare prima del previsto la dolorosa separazione dell’autunno del 2013.

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