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La Bce di Draghi tra Edoardo De Filippo e gli gnomi di Zurigo

In queste ore, le banche centrali e i ministeri economici e finanziari degli Stati aderenti all’Eurozona stanno negoziando i dettagli di quello che dovrebbe essere l’accordo per il varo di misure “non convenzionali” di politica monetaria da parte della Banca centrale europea (Bce).

Si tratta di quel Quantitative Easing (QE) ormai nel lessico anche delle massaie di Bresso, ridente sobborgo di Milano. E’ una trattativa i cui aspetti di fondo (e anche i dettagli) sarebbero dovuti restare riservatissimi, o ancor meglio segreti. Invece, è tutto in piazza, pure sulle prime pagine dei giornali locali (accanto alla cronaca nera e bianca della località).

Il management della Bce ha adottato una tattica (sarebbe eccessivo parlare di strategia) analoga a quella utilizzata ai tempi del negoziato del trattato di Maastricht, prima, e del faticoso percorso perché l’Italia entrasse nel gruppo di testa dell’unione monetaria europea, poi.

In breve, la tattica consiste nel suscitare da un lato grandi aspettative (di crescita o almeno di uscita dalla deflazione) tramite un accorto uso dei media, specialmente degli utili idioti sempre in servizio permanente effettivo, e di innescare, da un altro, grandi paure in caso di fallimento.

Al punto in cui siamo arrivati, c’è davvero il pericolo che, da un canto, le tensioni all’interno della Bce o un’intesa basata su una forte assunzione di rischio da parte delle banche centrali nazionali porti alla frammentazione del mercato finanziario europeo. Da un altro canto, lo spettro delle elezioni in Grecia e il rafforzamento delle forze politiche euro perplesse, ove non proprio euroscettiche, in tutta l’unione monetaria, potrebbero portare all’uscita (o alla cacciata) dell’Ellade dall’area dell’euro, e a un rallentamento dell’eurozona stimato da JPMorganChase (una banca d’affari), di un punto percentuale e mezzo nei successivi 18 mesi ossia in un aggravamento della deflazione.

I “costi del non accordo” sono su tutti i giornali. Nessuno si chiede, però, quali sarebbero i costi di un accordo, di cui si conoscono parte delle possibili caratteristiche, ma si vantano già i benefici. Lo facciamo noi, che non abbiamo fatto parte di cori a cappella.

Nella storia degli ultimi due secoli, i mercati non hanno mai esultato ad accordi monetari redatti solo da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo.

Vi ricordate l’intesa delle Smithsonian Institutions del dicembre 1971, chiamata dal Presidente degli Stati Uniti “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione Europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. E’ una promessa ancora non mantenuta,

Soprattutto, sei mesi dopo la firma del Trattato, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro cittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi che fece pagare ai concittadini un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.

Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente a Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsrue, l’evolversi degli eventi).

Tra gli azionisti di minoranza, la piccola Grecia minaccia di imitare Edoardo De Filippo con un sonoro Non ti pago!. E gli altri, pur avendo tutte le buone intenzioni, non possono aumentare la pressione fiscale se non vogliono essere defenestrati dal popolo elettore.

Nel contempo, gli “gnomi di Zurigo” (di nixoniana memoria) se la godono intascando utili consistenti su operazioni a breve.

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