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Dubbi e speranze sulla svolta decisionista di Obama

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di ieri sera il presidente Obama è andato all’attacco. Appena due mesi dopo la cocente sconfitta dei democratici nelle elezioni di medio termine il presidente dimostra di non accettare la condizione di “anatra zoppa” per gli ultimi due anni del suo mandato. Ha preso invece l’iniziativa con una serie di misure e annunci per avanzare le sue priorità sia a livello interno che sulla scena internazionale.

Nel tradizionale discorso di fronte al Congresso Obama ha rivendicato la ripresa economica degli ultimi anni, dichiarando che “L’ombra della crisi è passata”. Tuttavia, sapendo che buona parte della popolazione non vede i progressi registrati dagli indicatori macroeconomici, che riflettono invece un’economia caratterizzata da una disuguaglianza a livelli storici, ha subito lanciato diverse proposte per aiutare la classe media, delineando un contrasto con l’1% più ricco della popolazione.

Obama chiede di aumentare le tasse sui redditi più alti (oltre 500 mila dollari) per liberare risorse da destinare a sgravi fiscali e servizi migliori per famiglie con bambini. Propone di rendere più accessibile l’università e di garantire i giorni di malattia pagati per i lavoratori. E punta ad una nuova tassa sulle 100 banche più grosse negli Stati Uniti, nel tentativo di posizionarsi dalla parte della gente contro le banche too big to fail.

L’attivismo del presidente negli ultimi due mesi, con discorsi pubblici sui temi economici e l’annuncio storico del disgelo con Cuba, ha fatto risalire la sua popolarità nei sondaggi. Il tasso di gradimento di Obama torna a sfiorare il 50%, ad un livello che non si registrava dai tempi della campagna elettorale del 2012.

La preoccupazione tra la base progressista è che si tratti di una campagna soprattutto a parole, senza la reale prospettiva di attuare i cambiamenti. Ora che i repubblicani controllano sia la Camera che il Senato le proposte di Obama hanno ben poche possibilità di essere adottate. Quando invece ebbe numeri più favorevoli durante il suo primo mandato, il presidente lavorò all’insegna del compromesso pur di non inimicarsi certe lobby importanti.

Il caso più evidente è quello di Wall Street, dove la riforma Dodd-Frank non cambiò i meccanismi essenziali della speculazione finanziaria, puntando per esempio a misure molto limitate invece che ad una separazione netta tra le banche commerciali e le banche d’affari come attuato da Franklin Roosevelt negli anni Trenta con la legge Glass-Steagall. E oggi la Casa Bianca nemmeno difende quei pochi cambiamenti che riuscì ad approvare, permettendo al Congresso di annullare quelle norme che non piacciono ad istituti come Citibank e JP Morgan.

Il presidente potrebbe essere accusato di cinismo, in quanto diventa più aggressivo solo quando ha poco da perdere, ma molti sperano di vedere un Obama liberato, finalmente deciso a non farsi condizionare dal pragmatismo di breve termine. Il suo nuovo tono non si tradurrà in successi legislativi, ma servirà ad impostare il dibattito in vista della campagna elettorale per scegliere il suo successore nel 2016.

Mentre i candidati più graditi all’establishment come Hillary Clinton e Jeb Bush valutano attentamente come navigare tra gli umori popolari, l’ala progressista del partito democratico guidata dalla senatrice Elizabeth Warren batte sui temi della disuguaglianza, i misfatti di Wall Street, la necessità di investimenti veri nelle infrastrutture e nella spesa sociale. Sono temi che piacciono anche ad alcuni repubblicani, per il diffuso malumore di un elettorato deluso dalla risposta delle istituzioni alla crisi economica; rimane la percezione che il governo aiuta i più ricchi mentre la maggior parte della popolazione si deve accontentare delle briciole. Se il presidente seguirà questa linea avrà un impatto non piccolo sulla campagna nei prossimi mesi.

Se a livello interno il presidente si dovrà limitare ad influenzare il dibattito per il futuro, in materia di politica estera il suo ruolo è ben più grande. Ci sono infatti alcune questioni molto importanti che determineranno l’andamento delle relazioni internazionali nei prossimi anni. L’apertura verso Cuba e l’ impegno a chiudere la prigione di Guantanamo – rinnovato nel discorso di ieri sera – indicano la volontà di portare a casa qualche risultato importante prima di lasciare Washington, piuttosto che gestire soltanto le problematiche secondo il copione standard scritto dai neoconservatori e dagli interventisti di sinistra in seno alla propria Amministrazione.

Per quanto riguarda i rapporti con la Russia Obama non sembra pronto a discostarsi da questa linea, in quanto ha continuato a recitare il ruolo del difensore della libertà contro “l’aggressore”, senza ammettere la realtà delle dinamiche della crisi ucraina e dunque cercare una distensione.

Nel caso dell’Iran invece il presidente è stato più deciso. Ha promesso di porre il veto ai tentativi del Congresso di applicare nuove sanzioni, tracciando un chiaro contrasto rispetto a chi cerca una nuova guerra. Obama punta a raggiungere un accordo non solo per risolvere la questione nucleare ma anche per cominciare a ridisegnare i rapporti americani (e occidentali più in generale) nel Medio Oriente allargato.

Il tempo stringe però. Come nel caso delle iniziative economiche, aspettare l’ultimo quarto di mandato per fare sul serio è rischioso. Tra poco l’America volterà pagina. Se Obama vuole influenzarne la direzione futura dovrà andare oltre le intenzioni e passare ai fatti.

Andrew Spannaus è giornalista e analista, fondatore di Transatlantico.info

www.transatlantico.info
info@transatlantico.info
@AndrewSpannaus

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