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Amato solo di nome

Visto il livore che, in un intreccio di diverse culture e militanze politiche, ne ha accompagnato la mancata elezione a presidente della Repubblica, non stupirebbe se contro Giuliano Amato si aprisse una campagna di delegittimazione anche come giudice costituzionale.

D’altronde, si è già detto e scritto maliziosamente che il suo arrivo alla Consulta fu disposto il 18 settembre 2013 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano un po’ per ripagarlo della mancata nomina, qualche mese prima, alla guida del governo delle larghe intese, dove gli era stato preferito all’ultimo momento nel Pd Enrico Letta, e un po’ per piazzarlo meglio in una corsa al Quirinale che lo stesso Napolitano, eccezionalmente rieletto nella primavera precedente, ben sapeva destinata a riaprirsi in poco tempo.

Basterà sfogliare la collezione dei giornali dell’epoca, a cominciare da Il Fatto Quotidiano, il più tenacemente ostile all’ex presidente della Repubblica, per farsi un’idea del clima politicamente torbido nel quale si volle vedere e presentare la nomina di Amato a giudice costituzionale.

L’animosità spesso acceca. Della intensa biografia del nuovo giudice, della lunga carriera universitaria, cominciata ben prima che le circostanze gli offrissero l’opportunità o la disgrazia –verrebbe da dire a questo punto – di mettersi in politica e di percorrerne tutti i gradini, anche quelli massimi di governo, non contava più nulla.

Contavano soltanto un’astuzia interpretata e rappresentata al servizio delle peggiori cause, personali o di “casta”; una famelica vocazione alla rapina fiscale, com’è ancora dipinto il prelievo del 6 per mille sui conti bancari deciso dal suo governo nella drammatica stagione finanziaria del 1992, e che saremo forse costretti a rimpiangere se e quando l’Europa ne imporrà una replica ben diversa a Matteo Renzi; una tendenza al tradimento di amici e benefattori, a cominciare da quello più grosso di tutti, per stazza fisica e caratura politica: Bettino Craxi.

Hanno attinto con condivisione e compiacimento alle lettere e agli inediti tunisini di Craxi polemici verso Amato anche i peggiori avversari dell’ex leader socialista, da costoro lasciato peraltro morire in condizioni notoriamente precarie di assistenza sanitaria perché, in parole povere, da “latitante” se l’era cercata e voluta. Di colpo quel “professionista a contratto” e quel “genio dell’opportunismo elettronico” affibbiato da Craxi al suo ex sottosegretario, vice segretario e tante altre cose, è diventato credibile anche a tanti anticraxiani irriducibili. Che nel decimo anniversario della morte dell’ex segretario socialista vollero contestare anche una lettera di saluto, di ricordo e di rispetto spedita alla vedova da Napolitano, consapevole del trattamento “senza uguali”, per durezza, riservato a Craxi dalla magistratura e dalla stampa fiancheggiatrice nell’azione di contrasto al diffusissimo, diciamo pure generalizzato, fenomeno del finanziamento illegale della politica, e della corruzione che spesso ne era conseguito.

E’ “opportunismo”, elettronico e non, anche quello degli anticraxiani che hanno voluto usare le parole di Craxi contro Amato per cercare di contestargli tutto, e non solo la funzione attuale di giudice costituzionale: a cominciare dalle pensioni maturate con il suo lavoro e i suoi contributi, peraltro in parte già devolute in beneficenza e infine sospese su sua richiesta, unico dei giudici costituzionali in carica, com’è stato documentato da Davide Giacalone su un giornale come Libero, che non ne ha certo caldeggiato la candidatura al Quirinale, inutilmente proposta invece da Silvio Berlusconi. Cosa, quest’ultima, che è bastata ed avanzata per moltiplicare i sospetti già procurati a Matteo Renzi dalle aperture di almeno una parte della minoranza del Pd.

Un Paese veramente curioso e pericoloso quello in cui certa cultura politica e mediatica ci ha purtroppo condannati a vivere. Mi è capitato più volte di criticare Amato, lamentandone per esempio ritardi e incertezze volute, o subite, per quella che nel 1992-93 si chiamò uscita politica da Tangentopoli, sempre preferibile a una giustizia sommaria o strumentalmente selettiva, ma trovo francamente ripugnante il rogo della sua immagine di giurista e persino di uomo, tradotto in un roditore insaziabile. Questa non è civiltà. E’ barbarie. Contrastarla non sarà di moda, ma mi vergognerei se non lo facessi.

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