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Prima del dialogo, ci vogliono formazione e coraggio

Assisto recentemente a un convegno dove si parla di famiglia, nel corso del quale si esalta l’importanza della struttura-famiglia come cellula della società, come soggetto fiscale che fa investimenti anziché mera spesa, come microcosmo della società dove cooperazione e sana competizione si condensano, come struttura ordinatrice della società e così via. Splendidi concetti e temi su cui approfondire, soprattutto in una fase storica in cui la famiglia così intesa è palesemente ostacolata.

Pensieri largamente condivisi, l’ambiente è apparentemente in armonia con dei pensieri di assoluto buon senso e foriero di spunti da consolidare ed esportare in altri ambienti e altre sedi di discussione. Al termine degli interventi, al momento del cd. question time,  mi permetto un breve commento su quanto detto; del resto, mi aspetterei un quid pluris da delle riflessioni “fra cattolici” su temi di questa rilevanza, e comunque un pò di pepe non guasta mai. Di seguito la mia considerazione a mio parere pacifica e fin banale: come cattolici siamo tanto bravi a raccontarci fra di noi i più o meno comuni (e più o meno radicati) convincimenti, ma pochi hanno il coraggio di “portare fuori” e sostenere queste convinzioni, e in molte occasioni la tendenza al dialogo confuso e confondente ha prevalso su una testimonianza ferma e coerente. Non discuto la buona fede né tanto meno le buone intenzioni dell’adozione di strategie morbide a discapito di azioni più forti e marcate, sia chiaro. Mi fermo ad una domanda che pongo al pubblico presente: che risultati hanno ottenuto i cattolici (ed in particolare i politici cattolici) in Italia negli ultimi 30 anni? E aggiungo: perché, ad esempio, fatta eccezione per pochi eroici esempi, sui temi-chiave che dovrebbero essere cari ai cattolici abbiamo visto nel corso degli anni essere molto più attenti, sensibili e influenti alcune personalità tutt’altro che “cattoliche” in termini di connotazione, piuttosto che i cattolici pubblicamente impegnati? Penso ad esempio alla vicenda del crocefisso nelle aule (10 anni fa, ormai), sulla quale i richiami più sensati sono pervenuti da intellettuali non credenti, i quali mossi da una preoccupazione per il destino della cultura occidentale, e riconoscendo come questa cultura sia incardinata e coincidente con la cultura cristiana (leggasi Rodney Stark e Samuel Huntington, su tutti), hanno stimolato e supportato provvidenzialmente il mondo cattolico. Penso altresì a quella battaglia, tanto nobile quanto purtroppo inefficace (sullo scenario politico), portata avanti da un noto ex-direttore di giornale sul diritto alla vita e contro l’aborto.

A fronte delle sopra citate considerazioni, fatte rapidamente a valle dell’interessantissimo convegno, dopo alcuni istanti di silenzio una persona del pubblico viene a redarguirmi per l’inadeguatezza delle considerazioni, la sede non sarebbe –  a parer suo – una tribuna politica, e avrei dovuto rispettare le diverse sensibilità del pubblico presente. Peccato che le mie considerazioni, già discusse in più occasioni e in più ambienti, non avessero soltanto una portata politica, ma anche culturale e sociale, e l’atteggiamento propostomi ha provato quello che avevo appena affermato in quella sede.

Fortuna che anche nel mondo cattolico alcuni coraggiosi ancora ve ne sono, e danno sollievo, stimolo e forza agli altri. Credo che su temi chiave che hanno una propria oggettività (“ciò che è, è”) i valori si debbano affermare e non possano entrare nel circuito democratico della messa ai voti: il rischio è il dispotismo di una maggioranza democratica che decide cosa è e cosa non è. Errore madornale, perché è la mistificazione della realtà.

Il tanto osannato dialogo presuppone formazione e convincimenti. Esso rappresenta senza dubbio uno strumento utile e fruttuoso per testimoniare i propri convincimenti: ma è uno strumento, non un fine.

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