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1992, la serie di Sky vista da Marco Damilano

“Credo che il racconto di un evento storico che cambia le vite delle persone, qualunque sia l’evento storico, non rimanga mai solo narrazione. 1992 è il romanzo storico alla Manzoni o come il Gattopardo. Oggi però la fiction è la letteratura dei giorni nostri, per cui non c’è da stupirsi che un giovane possa vederne un archetipo”.

Parola di Marco Damilano, giornalista dell’Espresso, da poco in libreria con “La Repubblica dei selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi”, edito da Rizzoli.

La convince il mix tra realtà e finzione serie 1992 su Sky?

A me, personalmente, convince molto questa idea degli autori perché riesce perfettamente a esprimere le pulsioni dell’Italia di quel periodo.

Perché?

Prendiamo per esempio i tre personaggi focali realizzati ad hoc per la serie. Luca Pastore, il poliziotto, esprime egregiamente la “fame” di giustizia che permeava l’Italia di quegli anni; Luca si sente in diritto di essere risarcito dallo Stato per aver contratto l’Aids tramite una partita di sangue infetto e per riuscire nel suo intento viola le regole, sentendosi in un certo senso in diritto di violarle. Ecco, Pastore riesce a incarnare perfettamente il motivo per cui nel 1992 tutti tifavano per i giudici: c’era fame di giustizia.
Alla pari, il leghista improvvisato Pietro Bosco è esattamente il “barbaro” leghista che negli anni ’90 giungeva a Roma per conquistare la capitale, al pari di quanto avevano fatto un tempo i barbari con l’impero romano. E il personaggio di Pietro riesce a manifestare questa pulsione meglio di Bossi o di qualunque altro soggetto appartenente alla Lega, la pulsione tipica del leghista che tentava malamente di comunicare con i palazzi del potere pur non parlandone la stessa lingua.
Infine, Leonardo Notte, interpretato da Stefano Accorsi, esprime l’ansia dell’uomo. Leonardo è l’ex gruppettaro di sinistra che non ha smarrito la voglia di fare la rivoluzione, ma finisce per farla con Non è la rai, con Publitalia e con Berlusconi.
Ecco, i personaggi di fantasia di 1992 incarnano perfettamente quelli che erano i personaggi reali del 1992.

Secondo lei, i giovani che cosa apprendono dalla narrazione della serie tv 1992?

Credo che il racconto di un evento storico che cambia le vite delle persone, qualunque sia l’evento storico, non rimanga mai solo narrazione. 1992 è il romanzo storico alla Manzoni o come il Gattopardo. Oggi però la fiction è la letteratura dei giorni nostri per cui non c’è da stupirsi che un giovane possa vederne un archetipo. Certo, non so se i giovani possano identificarsi nei personaggi della serie in quanto piuttosto che una lotta fra “bene” e “male”, 1992 è una lotta fra il “vecchio” e il “nuovo” dove i confini fra bene e male sono molto labili e anche i buoni possono sconfinare nell’ambiguità.
Nelle prossime puntate, ciò diventerà più evidente.

Perché secondo lei, come sostiene nel suo libro, la frattura del 2011-2014 è molto più profonda di quella del 1992-1994?

Al momento siamo ancora dentro le cose, per cui è difficile interpretare quanto si prende atto di ciò che sta avvenendo. Nel 1992 però, c’è stato uno sconvolgimento vero e proprio: politici indagati, stragi, suicidi, protagonisti del mondo della politica scomparsi in breve tempo, qualcosa di effettivamente rivoluzionario. Ma i vent’anni successivi si sono poi rivelati nient’altro che la coda della Prima Repubblica; i mutamenti sono avvenuti solo in superficie e gli attori sono rimasti sempre gli stessi, nascondendosi spesso dietro il mero cambio del nome dei partiti. Alla fine, quindi, la rivoluzione è rimasta solo giudiziaria; non politica, non etica. In realtà, si può affermare che con la Prima Repubblica vi è piuttosto un rapporto di continuità che di discontinuità.
Forse, solo negli ultimi due anni vi è stato un punto di rottura, e sebbene non sia possibile sapere come andrà a finire perché ci siamo ancora dentro, è evidente che la crisi attuale è più eterogenea e profonda di quella del 1992.

Per quale motivo?

Per esempio, sia nella storia che nella fiction di Sky si evince come gli anni ’80 e i primi anni ’90 siano stati in un certo senso come la Belle Époque; l’arresto di Mario Chiesa che dà il via all’inchiesta Mani Pulite (e anche alla serie) può essere in un certo senso visto come lo sparo di Sarajevo che butta giù l’ordine precostituito. La crisi del 2011, invece, non arriva alla fine di un periodo di festa ma, al contrario, da un lungo periodo di declino, di recessione e di decadenza dei partiti, dei giornali, dei sindacati, della Confindustria, e della società più in generale per cui il crack era palesemente annunciato.

Quali reazioni reali ci furono agli eventi del 1992?

In realtà nel 1992-1994, al di là delle apparenze, non ci furono grandi manifestazioni di piazza. Più semplicemente, c’era una società che, per una grande fame di giustizia, tifava per i giudici che venivano investiti del compito di fare piazza pulita. Anche se, a dirla tutta, si aveva quasi l’impressione che quei politici che andavano in galera non li avesse mai votati nessuno, eppure fino a poco tempo prima avevano tutti un larghissimo consenso.
Oggi, invece, sembra che prevalga una società che, seppur indignata, non ha più qualcuno a cui delegare la propria frustrazione e la propria rabbia. Forse qualcosa del genere si è visto nelle elezioni del 2013 con il M5S, ma in generale la società di oggi non si fida più di nessuno. Diciamo che piuttosto che rabbia e sdegno, i sentimenti che prevalgono oggi sono frustrazione e depressione.

Parliamo del suo libro “La Repubblica dei selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi“. Sono i figli ingrigiti della meglio gioventù ad aver generato la Repubblica del selfie o è la Repubblica del selfie ad aver generato i figli ingrigiti della meglio gioventù?

Anagraficamente e generazionalmente si può dire che la generazione del selfie è composta in effetti dai figli della meglio gioventù, ovvero i figli di quella generazione degli anni ’60 che si è sempre percepita come la gioventù del progresso, delle grandi opportunità, delle grandi speranze. Questa meglio gioventù ha lasciato però alla generazione successiva un Paese particolarmente disastrato e un’eredità difficile da gestire; probabilmente anche un’eredità narcisista in cui dal collettivo, dall’amore per il “noi”, che era il tratto distintivo della generazione precedente, si è arrivati all’amore per l’“io” che è perfettamente rappresentato dal selfie.

Un’ultima domanda: se nel 1992 ci fosse stata la moda dei selfie, con chi avrebbe preferito scattarne uno?

Io non mi faccio i selfie.

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